Ci sono ancora dei porti…

Il mare di Tricase porto con il profilo della costa

“Il sapere ha un piede in mare e l’altro in terra”, anonimo.
Quercia vallonea di Tricase , esemplare ultracentenario detta dei cento cavalieri

Nel Capo di Leuca

Il proverbio citato rende l’idea di ciò che rappresenta un luogo emblematico dell’incontro tra cultura marinara e civiltà contadina. Il Capo di Leuca ospita un suggestivo scenario che evoca la vita in tutti i suoi aspetti, Tricase Porto. Non finis terrae, ma centro del Mediterraneo, è il grande insegnamento che si coglie dal visitare questi luoghi, dove il mare è importante come la campagna, dove la saggezza di popolazioni miti ha arricchito una profonda cultura locale, basata sull’accoglienza.

L’iniziativa

Gruppo di lavoro presso la sede del chieam di Tricase porto

«Infondo, cosa vuol dire autentico se viviamo un luogo basato sul meticciato?», questa è la domanda che si pone al principio della tre giorni organizzata a Tricase Porto dal CIHEAM Antonio Errico, Presidente di Magna Grecia Mare, Associazione che con la Cooperativa Terrarossa Presieduta da Daniele Sperti ha curato un Educational Tour per presentare in chiave di responsabilità un luogo non tanto e non solo vocato in via esclusiva al turismo, quanto intimamente fondato sul principio dell’accoglienza.

L’esperienza

Gruppo di lavoro in visita alla quercia dei cento cavalieri

Con Sonia Gioia di Cucinabili Visioni Ho partecipato dal 22 al 24 ottobre 2021 in rappresentanza del Disability Pride Network all’iniziativa, che porta il titolo di questo post, per testare anche la capacità di rendre accessibile le offerte di fruizione lenta e sostenibile del territorio tricasino, già vocato alla tolleranza e all’apertura delle braccia per accogliere in grembo chiunque voglia sostare. «Ci sono ancora dei porti» è una frase tratta da uno scritto del giornalista Gabriele Romagnoli, nel più ampio ragionamento e testimonianza da Tricase Porto. Su SinapsiMag E sulla stessa pagina del Disability Pride Network troverete testimonianza nei prossimi giorni di ciò che è stata l’esperienza, ma anche delle suggestioni che ci portiamo dentro al ritorno a Roma, interiorizzando l’importanza che ha per la crescita della persona un porto vero, come appunto suggerisce lo stesso Romagnoli.

Tricase comunità accogliente

Il porto di Tricase visto dall’alto con varie imbarcazioni ormeggiate

Per i lettori di Opposte Visioni vorrei sottolineare in anteprima degli aspetti di quella comunità che mi hanno molto colpito, punto di partenza per tutte le riflessioni e i contributi che seguiranno. Traendo spunto dallo Statuto comunale di Tricase, possiamo ricavare delle informazioni preziose per comprendere anche il tentativo che il territorio esprime in chiave concreta di quegli stessi principi, filo conduttore che seguirò per le testimonianze future.

Leggiamo dunque al secondo comma dell’articolo 2 dello Statuto di Tricase, dedicato ai  Principi generali, che: «La comunità locale è costituita: Dai residenti. Dai residenti anche se domiciliati all’estero e/o fuori del Comune di Tricase. Da tutti coloro che hanno un rapporto qualificato per ragioni di lavoro, di studio, di utenza dei servizi, o che scelgano di soggiornarvi anche temporaneamente/periodicamente». Quest’ultimo aspetto è molto significativo, perché nella comunità ospite viene data pari dignità anche a quei cittadini che soggiornano periodicamente, ovvero ai turisti/visitatori di Tricase. Tale dignità viene ribadita poi nella lettera D dello stesso comma, dove leggiamo che: «Primo dovere del Comune è il governo della città a misura d’uomo(…) ».
Dunque l’umanità è posta al centro della carta fondamentale di Tricase, a prescindere dalla provenienza o dal motivo che spinge la persona a vivere la comunità; risulta subito chiaro come questo tratto sia evidentemente ispirato da una cultura marinaresca dove il porto è luogo di accoglienza per chiunque lo necessiti.

Tale visione è rafforzata leggendo l’Articolo 3, dedicato agli Obiettivi fondamentali, che riporto di seguito in sintesi: «Il Comune di TRICASE informa il proprio ordinamento ai seguenti principi: la centralità della persona umana; l’affermazione della cultura dell’accoglienza, quale condivisione dei bisogni degli altri, senza distinzione di razza o provenienza; la partecipazione sostanziale alla vita della comunità, perché il cittadino sia parte consapevole dei processi decisionali; la solidarietà, il volontariato e la gratuità dell’impegno sociale come valori di convivenza civile; la valorizzazione della cultura originaria e della memoria storica della comunità; (…) il raggiungimento della piena integrazione delle realtà del mezzogiorno in quella più ampia e strutturata del Continente europeo e del bacino del Mediterraneo; (…) superare gli squilibri sociali, garantire i diritti dei soggetti svantaggiati, riconoscere il ruolo sociale delle donne, sostenere le libere forme associative; (…) tutelare e recuperare l’ambiente e il patrimonio storico/culturale; (…) qualificare i servizi erogati, elevandone gli standard anche mediante il metodo delle “carte dei servizi”, basate su criteri di trasparenza, accessibilità, responsabilità e sul principio della collaborazione tra cittadini-utenti ed operatori pubblici».

Le parole chiave contenute in questi due articoli dello Statuto si respirano nelle atmosfere vissute nella tre giorni, con un grande impegno di Terrarossa, Magna Grecia Mare e dello stesso ente promotore, di respiro internazionale, quale il Ciham. Occorre però che tutto venga supportato da un maggiore impegno degli operatori privati e delle istituzioni pubbliche locali affinchè lo stesso documento comunale si tramuti in una piena affermazione non tanto di diritti, diretta conseguenza, ma di un modello equo di integrazione nel tessuto della comunità di chiunque voglia vivere e visitare Tricase, con le proprie specificità.

Sessione finale con consegna di brochure braille nella sede del ciheam. Nella foto Massimo Zuccaro, Daniele Sperti e Antonio Errico pronti a ricevere il plico da me

In conclusione Tricase, il suo porto e tutto il territorio si presta alla piena accessibilità di luoghi e servizi, occorre solo gettare il cuore oltre l’ostacolo e realizzare con un modello concreto e vivo tutti quegli elementi che si leggono nella Carta tricasina. Chissà che questo messaggio non venga colto a pieno da imprenditori ed amministratori, perché le manca poco per divenire una comunità pienamente inclusiva, anche nel turismo.

Buon vento alle tricasine e ai tricasini, lo auguro di cuore.

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Voce alle guardie naturalistiche di Macchiatonda.

Tratto di costa di Macchiatonda

Lavorare con i sensi per tutelare la natura

Questo post merita un sottotitolo. L’esigenza di rimandare al lettore l’umanità e la dedizione di questi operatori non poteva esaurirsi in una sola battuta. Perché si parla in primo luogo di persone che si dedicano alla tutela e alla salvaguardia dell’ambiente nell’esercizio delle loro funzioni. Ma per il lavoro che svolgono è parimenti la loro sensibilità a dover essere messa in risalto, perché si tratta di personale che usa per lavoro tutte le potenzialità del nostro corpo, al fine di assolvere al meglio al proprio dovere.

La tutela dell’ambiente passa anche dalla consapevolezza nella cittadinanza del patrimonio di biodiversità e degli ecosistemi presenti sul territorio. Questo mi sembra essere il pensiero che fa da sottofondo continuo alla visita del 27 giugno scorso alla riserva di Macchiatonda, nel comprensorio di Santa Marinella, zona nord della Città Metropolitana di Roma, durante la manifestazione “Natura Senza Barriere” voluta da FederTrek e la rete del Disability Pride e realizzata grazie all’organizzazione dell’associazione Il Paese che Vorrei.

Escursionisti di Natura Senza Barriere

Durante questo appuntamento dedicato principalmente al tema dell’accessibilità, che descrivo per linee generali Qui, il gruppo di visitatori è stato accompagnato nella visita alla riserva regionale di Macchiatonda da tre guide naturalistiche delle cinque in forze per la sua tutela. Sergio, Patrizio ed Ernesto, come i loro colleghi assenti in quel momento perché su altri turni, hanno messo a disposizione la loro competenza e voluto fortemente questo appuntamento, proprio per ripartire dall’accessibilità e dalla piena fruizione del bene comune Macchiatonda.

Per dare nuova linfa al sito e divulgare l’importanza della tutela della biodiversità, è loro convinzione, si deve partire proprio dalla sua conoscenza. I video che accompagnano questo post, infatti, raccontano di uomini in prima linea per il bene comune e la salvaguardia del patrimonio più importante che abbiamo, la biodiversità. Ma stimolati da me e da Sonia si raccontano anche non nascondendo la loro umanità. Le informazioni che emergono dai loro contributi sono tante, e molto interessanti. Non mi dedicherò in queste righe alla mera trascrizione dei video in testo, lasciandovi il piacere di godere della loro testimonianza diretta. Porrò invece, in premessa ad essi, alcune riflessioni frutto anche della chiacchierata a camera spenta avuta durante il percorso. Una prima cosa che emerge è come occorre investire di più in personale – e con più funzioni – nell’attività di salvaguardia, controllo e monitoraggio delle aree come Macchiatonda; qui, ad esempio, 5 persone dedicate alla sorveglianza mi sembrerebbero poche e, alla precisa domanda se il personale è sotto organico (come gran parte delle pubbliche amministrazioni), la risposta è scontata. La pianta organica dedicata sarebbe di otto, ma fanno i salti mortali per coprire adeguatamente i due turni previsti solo loro cinque. Ma non è polemico l’intento di questo post, anzi vuol essere elogiativo proprio di coloro che vi lavorano, quindi proseguiamo con la passeggiata.

Dalla finestrella di osservazione degli uccelli

Mi colpisce la consapevolezza degli operatori del concetto di fruibilità e accessibilità. Non lo si pretenderebbe da persone abituate a lavorare lontano dall’uomo e immerso nella natura, eppure loro sono i primi che in modo molto naturale, passatemi il termine, e consapevole sanno dell’importanza di rendere fruibile Macchiatonda. Un’altra cosa che mi ha impressionato positivamente è stata la capacità di comunicare la loro profonda natura umana. Nel senso che qui, come tassello della biodiversità, anche l’uomo usa le sue capacità sensoriali per adattarsi all’ambiente circostante. Proprio come le guardie naturalistiche, persone che usano tutti i loro sensi per monitorare, sorvegliare e salvaguardare la riserva, fondamentale per il patrimonio di vita dell’area costiera a nord di Roma.

Sergio e il canto degli uccelli

Sergio ci racconta dell’importanza del canto degli uccelli per monitorare lo stato di salute dell’ambiente e come la vista, in quest’attività, non serva quasi. “Sento tutti i giorni il canto di uccelli che poi vedo si e no un paio di volte all’anno”. Eppure Sergio conosce e sa precisamente dove trovare colonie di questo o quel volatile all’interno dell’area protetta. Dal suo racconto emergono poi tante altre informazioni, molto interessanti e che denotano anche delle contraddizioni. Ma il percorso in sua compagnia inizia con il farci assaggiare un frutto amarissimo, spontaneo, che è presente nel parco e nel circondario, anche se molto raro. Il Prugnolo è infatti una specie edule ormai in disuso, della quale l’uomo non si ciba più.

Il prugnolo

Grazie al supporto di Sonia, durante la chiacchierata con Patrizio nel secondo video viene fuori anche una ricetta per trattare questo frutto minore ed ottenere una confettura da questo dono della natura ormai disdegnato dal palato sgraziato di un’umanità che ha smarrito il rapporto privilegiato con i sensi e la natura circostante.

Pianta di prugnolo

Sempre con Sergio, durante il tratto di spiaggia al margine della riserva, emerge anche l’uso di un’altra pianta edule che da salentino ben conosco, il celebre “asparago di mare”, ormai riposto nella tradizione di pochissime comunità locali.

La spiaggia di Macchiatonda

Sulla biodiversità vegetale del parco e la loro struttura, Patrizio ci da un veloce accenno, proprio per riprendere parte del contenuto della passeggiata che, sia lui e sia Sergio, hanno divulgato nei due gruppi che componevano la platea di quel giorno, divisa appunto per rendere maggiormente fruibile il tempo a noi dedicato e rispettare le norme sul distanziamento fisico a causa del Covid19.

Patrizio ed Ernesto tra biodiversità e natura umana

Un altro aspetto emerso nel dialogo continuo con tutti gli operatori del parco coinvolti, del quale abbiamo parlato con Ernesto, è il ruolo dei sensi nello svolgimento del loro delicatissimo lavoro. Ad esempio, per comprendere lo stato di salute della natura circostante, un ruolo lo ricopre anche l’olfatto. Inebriati si dai profumi, esso restituisce anche un’importante sentinella in funzione di prevenzione degli incendi. Chiude poi Ernesto con una battuta, ovvero su come si ritorna alla vita sociale dopo un turno di lavoro in questo paradiso. Ebbene, non è facile!

Raccogliendo il loro appello, ribadito sia all’inizio della passeggiata che durante la pausa nell’area pic-nic, invito chiunque si trovi a visitare Macchiatonda a scrivere alla Direzione Ambiente della regione Lazio per segnalare ogni cosa possa migliorare e rende più fruibile quest’area naturalistica. Macchiatonda merita l’attenzione di tutti. E la merita anche per il lavoro di queste persone che dedicano un’intera vita professionale alla tutela di un bene che spesso ci dimentichiamo di avere sul territorio e che passa in silenzio accanto a noi ogni volta che lambiamo con l’auto la riserva di Macchiatonda percorrendo la via Aurelia.

Accessibilità alla cultura: immagini da toccare

Gli stimoli che io e Sonia abbiamo ricevuto durante un viaggio ad Ancona nell’aprile 2016 ci hanno permesso di aggiungere ulteriore consapevolezza alla nostra condizione di minorati della vista. Il motivo della nostra presenza ad Ancona era squisitamente “professionale”. Infatti ad un certo punto dei nostri trascorsi imprenditoriali nell’l’accessibilità turistica nel Salento ci è sembrato opportuno integrare e confrontare le nostre esperienze e le attività di formazione del Museo Omero conciliavano con questa esigenza. E non ci siamo fatti scappare l’opportunità, dato il richiamo che questa istituzione rappresenta per chi come noi è impegnato per l’accessibilità di ciechi ed ipovedenti. Ma non immaginavo certo di essere rapito da un luogo assolutamente magico. Di seguito alcune riflessioni scaturite dalla visita a questo museo del capoluogo marchigiano.

“La mole Vanvitelliana, complesso monumentale che ospita il Museo, ti accoglie, proteggendoti dal mare mosso dell’umanità. Qui gli spazi sono assolutamente gradevoli, cercando di rispondere alle moderne esigenze dei fruitori con la conservazione del Bene. Questo connubio ha fatto si che si creasse non un contenitore, ma una “scatola dei sensi”, dove il più stimolato è quello dell’intelligenza. Il tatto lo fa da padrone, viste le peculiarità autentiche del luogo,ovvero toccare con le mani riproduzioni sapientemente create di monumenti che fanno la storia della cultura italiana e non solo. Quest’operazione è importante a mio avviso per due motivi: uno di pura matrice storico-culturale, creare comunque la coscienza e il ricordo collettivo dell’arte, anche attraverso la fruizione tattile. Quindi più copie per vari usi di un bene, altrimenti inaccessibile e incomprensibile, rappresentano una sorta di “fotografia” nella memoria collettiva, perché ne testimoniano l’esistenza, appunto. Il secondo motivo è di tipo Ontologico. Al museo omero si può e si deve fruire dell’arte complessivamente. Complessivamente significa al pieno delle proprie potenzialità. E’ favorita la fruizione tattile perché ci si rivolge e si organizza lo spazio per le esigenze di quella categoria esperienziale dell’umano. Ma il tatto è di tutti. Questa è l’evidenza che con naturalezza Aldo Grassini e altri ideatori, curatori ed operatori della struttura museale evidenziano. Quindi essendo di tutti, tutti possono goderne con tale modalità. L’arte e ciò che ne consegue in quel luogo sono fruibili a pieno, con il tatto e con la vista. Arte riprodotta, testimonianza dell’esistenza di quell’opera, ma anche arte originale, tramite la sfida e il contributo di numerose esperienze artistiche, tra le quali la più significative quella di Felice Tagliaferri, scultore cieco di origini pugliesi; ecco, questo spirito vuol dire accessibilità culturale dal punto di osservazione del tatto. Godere perché esiste l’arte, goderne a pieno perché esiste il tatto. Il pensiero e la testimonianza degli attori principali di questo luogo, come Andrea Socrati, danno l’idea dell’impegno culturale e professionale, con sano senso di protagonismo, di questo gruppo di persone, che oltre a saper gestire e a sapere cosa dire, sanno perfettamente quali emozioni andranno a suscitare, e posso garantirvi che l'”io” pensante c’entra poco, è coinvolto molto l'”io percettivo”. Gli operatori del museo si rivolgono principalmente ad utenti giovani, alle scuole, ai cittadini di domani, educandoli esattamente alla sinestesia come chiave di lettura del mondo. Interessante infine è stato l’insieme di stimoli e contatti derivanti da quest’esperienza. Sapere che a Bologna come a Firenze la sensibilità a tali argomenti porta alla genesi di forme d’arte sperimentali, o addirittura della fruizione di opere originali, mi fa capire come l’Italia della Cultura sia ormai pronta ad assimilare i concetti di “universal designe” e “accessibilità” in maniera molto moderna e creativa, alimentando ulteriormente il livello di “creazione della cultura” in cui eccelliamo in tutto il mondo da sempre.”.

Consiglio vivamente a tutti di visitare questo luogo, appena le restrizioni per il Coronavirus lo permetteranno. Per crearvi un primo feedback del museo potete visitare il loro sito web

http://www.museoomero.it/

NB: articolo scritto il 19/4/2016

“”Lampedusa”

“Lampedusa”, brano del gruppo reggae salentino Sud Sound Sistem del 2010, la colonna sonora del viaggio nell’isola. Ritengo che sia la colonna sonora ideale per accompagnare la lettura del precedente articolo sulla Porta d’Europa di oggi.

L’arrivo e l’accoglienza in un contesto urbano ricco di biodiversità ed umanità.

Quelli che seguono sono gli estratti di due articoli scritti al principio del nostro viaggio lampedusano del 2016, con i titoli “L’arrivo e l’accoglienza” – il primo – e “La dimensione urbana di Lampedusa” – il secondo -, dove si raccontavano vari aspetti dell’isola, ma soprattutto gli incontri carichi di umanità. Oggi (2020, NDA) voglio ritornare a ringraziare Paola e Melo per tutti gli stimoli che ci trasmisero all’epoca, che oggi ancora ci accompagnano e danno linfa alla voglia di ritornare che abbiamo a quelle latitudini.

Il primo post, scritto dopo la prima notte sull’isola, raccontava che “In questo viaggio le aspettative sono tante, riferite principalmente alla sua elaborazione mentale. Che Lampedusa troveremo? Quanto ci faremo coinvolgere? Come ci relazioneremo? domande che hanno trovato subito una risposta appena atterrati nella piccola porta D’Europa, ultimo lembo d’Italia. Paola e Melo, operatori turistici rintracciati tramite la Guida “Lampedusa” a cura di Ivana Rossi, edita da AltraEconomia (che potete vedere recensita qui),

http://viaggiwwfnature.it/3379-la-natura-selvaggia-di-lampedusa-un-viaggio-e-una-guida-per-scoprirla/

sono due persone inclini all’accoglienza.”.

Il B&B di Paola e Melo che ci ospitò, e spero che torni presto a farlo, è questo…

http://www.paolaemelo.it/main/home.jsp

Ma riprendiamo quel racconto: “Isolani di adozione, hanno stabilito in questa scheggia di terra nel Mare Nostrum di stabilirsi e vivere. Persone molto attente anche nel coinvolgimento rispetto alle dinamiche che succedono man mano. L’approccio è stato di quelli che non ti aspetti, per vari motivi. Il Mare, ovviamente, non aveva bisogno di essere presentato. Ma ci ha lasciato subito perplessi invece la condizione delle coste, quando loro stessi ci hanno riferito che in questo periodo dell’anno (aprile 2016, primavera, NDA), nel quale l’Isola esprime la sua essenza di meta turistica slow, i litorali invece sono sporchi e la pulizia autentica tarderà da venire. Si tratta per lo più di Posidonia, ma non mancano le tracce di quell’umanità abbruttita, che oltre a consumare, e magari anche male, si ritrova poi ad usare il mare come grande immondezzaio, che nei giorni di levante a Cala Pisana restituisce tutto. Abbiamo preso poi tutte le informazioni per osservare l’isola anche dal di dentro, scoprendo con gran piacere che sono in corso in questi giorni attività di catalogazione della biodiversità, e cercheremo  di rendervi conto anche di tale attività, con qualche impressione, legata chiaramente anche a questa importante operazione di tutela della biodiversità isolana. Poi i lampedusani. La gente incline alla gentilezza, quella poca incontrata in un pomeriggio festivo che vedeva una comunità sonnecchiosa. Ovviamente si sa, non sempre i tempi di turisti e locali coincidono, non per lo meno il primo giorno. Ma da quel piccolo assaggio della Comunità, perso tra un cocktail di frutta e la crema di pistacchio, seduti in via Roma tra discorsi legati alla solidarietà e alla capacità di adattarsi di quest’isola a ciò che accade attorno, possiamo dire che è un’isola che in qualche modo si presta ad accogliere. Nello stesso pomeriggio poi abbiamo scoperto, rapidamente rispetto ai tempi che credevamo, quanto quest’isola sia ineluttabilmente legata alle lotte dell’emigrazione disperata dalla vicina, vicinissima, Africa. Infatti tra gli incontri particolari del primo giorno abbiamo incrociato l’esistenza di C, nell’isola per raccogliere informazioni, osservare e dare una mano in relazione alle dinamiche migratorie e agli arrivi. Non una giornalista, bensì una donna che dal profondo Nord si è spinta nell’estremo Sud per capire come e cosa fare per alleviare le sofferenze per chi vede solo nella fuga la possibilità di ritornare ad esistere. Ieri sera (25-04-2015, NDA), infatti, attorno alle 21:30 c’è stato uno sbarco, di quelli programmati ovvio, gente già salvata in mare che per la primissima accoglienza viene condotta qui. Un altro è previsto oggi, e poi chissà. Incroceremo per quanto possibile anche noi questi destini in fuga, cercando di dare, ma da quello che abbiamo capito “dare” nel senso più alto del termine, non è facile. In effetti ciò che ci colpisce è l’impossibilità di poter dare, per la cortina di burocrazia che anche in questo lembo di terra, in perfetto stile italiano, si crea tra chi necessita e chi desidera dare solidarietà.”.

Il secondo post ci restituisce un viaggio nella comunità e nel suo contesto urbano, che iniziava con queste riflessioni: “Se esiste una dimensione urbana, di fatto ci sarà una dimensione extra urbana. Ovvio. Quindi entriamo nel secondo aspetto, quello riferito all’ecosistema di Lampedusa. Un’isola, appunto, piccolo approdo all’estremo sud d’Europa, che geograficamente è Africa. Un’isola piccola, certo, ma che ha una sua struttura urbana. E se con la solita sufficienza pensiamo ad un borgo, un piccolo centro, dove null’altro può esserci se non solo l’approccio slow alla vita, dobbiamo in parte ricrederci perché in verità a delle sue problematiche, legate per esempio all’approvvigionamento di ortaggi e verdure. Come ogni contesto urbano dove si presenta questa sfida, anche a Lampedusa ci sono degli orti urbani. Paola ci propone di partecipare ad un incontro di un progetto di Orti urbani. A Lampedusa? Si, perché no? C’è l’esigenza, c’è l’utenza, c’è il luogo. Il progetto nasce con l’intento di dare una possibilità ai lampedusani di poter tutelare e curare un pezzo del territorio, in pieno centro, nei pressi di Piazza Brignone. Ma anche di dare la possibilità di procurarsi prodotti che, se a volte simbolicamente, coprono il fabbisogno dei cittadini, soprattutto in termini di soddisfazione, ma anche in termini di nutrimento. Sul luogo mi soffermerò tra poco, ora due parole sull’esperienza. Il progetto nasce dall’incontro di “Terra!” onlus e Lega Ambiente. Vengono coinvolti gruppi di amici, un centro diurno di riabilitazione di utenti con problemi psichiatrici (altro aspetto che sarà trattato a breve, anche se solo in accenno), e, le più adorabili ed efficaci, le “mamme lampedusane”, invidiate per i risultati dell’orto… Amuri de matri! L’incontro del giorno è con M., appassionato di botanica del Nord, che tiene un seminario di confronto e incontro sulle piante eduli. I presenti sono tutti molto interessati e attivi, sia nel recepire le informazioni di M., ma anche nel confrontarsi tra loro, in un dialogo intergenerazionale, sugli usi di queste piante, parte preziosa della biodiversità lampedusana; il confronto è dominato dalle ricette della signora Anna, autentico salvadanaio di memoria per usi e nomi delle piante descritte dal botanico. Come accennavo, tra le varie realtà degli orti urbani, ci sono gli utenti del centro diurno che ha in carico la riabilitazione dei lampedusani con problemi psichiatrici. Non sono tanti, ma nemmeno pochi. Il centro risulta, con questa ed altre attività, un’alternativa ad una vita in penombra, che come sappiamo è una questione aperta un po’ ovunque nel nostro Bel Paese, al sud in particolare. Esiste anche qui un sentimento di “vergogna”, ci spiega M., che è stato difficile da scardinare. Ma i risultati ci sono tutti, e l’orto ne è testimonianza, dandoci da mangiare, alimentando il pranzo settimanale in struttura con gli utenti. Da da “vivere”, perché si organizzano dei mercatini solidali nei periodi di raccolto, anche se il “collocamento mirato” non è di fatto possibile in questo contesto socio-territoriale. La solidarietà, già, elemento che emerge sempre a proposito di migranti. Ma la solidarietà tra lampedusani c’è? Si, ci spiega M., di fatto si. Non è stato facile all’inizio della loro attività, ci informa, ma l’isola si presta comunque al volontariato e al mutuo aiuto, e la solidarietà non manca, manifestandosi di frequente. Forse è l’inclusione a mancare, sottolinea, come d’altronde nel resto del Paese. Quei processi di inclusione che dovrebbero essere scontati, alla luce di tante dinamiche e norme (Convenzione in testa), ma che fatica a realizzarsi in un corpo sociale sopito e indifferente come il nostro. E ovviamente accade anche qui, piccolo punto nel mare magnum. Forse non te lo aspetti nel caso di Lampedusa, dove l’immagine è pervasa da un alone di buonismo, nel crederla assolutamente solidale come comunità. Invece no, si fatica anche qui. Qui anche si manifestano quelle distorsioni culturali.

Ma chiudiamo con un accenno sulla location degli orti urbani di Lampedusa; il luogo, riguarda di fatto il recupero di questo appezzamento di terra nei pressi di piazza Brignone. Infatti il progetto si sviluppa nell’area archeologica dell’isola, in pieno contesto urbano. Quest’area archeologica è stata considerata sempre di scarsa importanza, quindi era diventata di fatto una specie di discarica. Il progetto ha avuto chiaramente il primario obiettivo di recuperarla, dandole un nuovo senso, manutenendo di fatto anche l’attiguo scavo. Ma ci chiediamo: per quanto scarsamente importante per la scienza può essere, per l’isola non ha nessun senso? Non crediamo che ciò sia possibile, quindi ci lascia profondamente perplessi il fatto che a nessun amministratore venga in mente di chiedere approfondimenti alla sovraintendenza di riferimento o allestire una sorta di studio per la conservazione della “memoria”, rappresentata ovviamente da quei pochissimi resti donati dagli scavi. Nessuna testimonianza della Storia è di scarsa importanza, se importanza hanno anche i resti di un incendio domestico.”.

P. S.: L’origine dell’esperienza degli orti comunitari a Lampedusa sono presentati da Paola, la proprietaria del B&b citato negli articoli, in questo post del 2014

Gli orti comunitari di Lampedusa

Quell’esperienza poi ha portato a questa recente evoluzione…

https://www.balarm.it/news/a-lampedusa-la-prima-coop-agricola-sociale-tra-orti-urbani-e-sementi-delle-pelagie-117509

Noi, nel mentre, sogniamo di ritornare sull’isola Porta d’Europa…

NB: articoli scritti il 26 e 27 aprile 2016.

Voglia di Memoria

Siamo già alla fine di un viaggio, con altri viaggi nella testa, ma Lampedusa resta nel cuore. Non è una frase fatta. L’Isola infatti è bella, da ogni punto di vista. Per questioni metereologiche abbiamo saltato l’osservazione della riserva marina e dell’area protetta, ma sarà l’occasione per tornare. Sostanzialmente ci siamo trovati di fronte ad una comunità con un carattere tipicamente “meridionale”, con le relative problematiche. esaltante è però stato il viaggio tra le persone. E il nostro viaggio si conclude con questo racconto, ripromettendomi altre finestre nelle settimane a venire. Buona lettura.

Nino Taranto è un personaggio indubbiamente “unico”. In un’isola, come quella di Lampedusa, dove emerge con forza il segno distintivo di una piccola “industria turistica”, lui no, ha fermato il tempo degli umani ad un altro livello, più lento. Non pensa, Nino Taranto, al nutrimento del fisico o alle necessità primarie. No, Nino è una persona che bada al nutrimento dell’anima, alla Memoria storica, alla piena capacità di una comunità di essere consapevole. Nino Taranto nasce a Napoli da Madre napoletana e padre lampedusano. Nella cadenza questa sua origine del tutto casuale se la porta dietro, in maniera abbastanza evidente. Ma Nino è lampedusano. Non ha il tratto tipico però incontrato sinora. Direi che risulta quasi alieno. Nino gestisce un luogo molto interessante, che bada alla ricostituzione della Memoria collettiva e storica dell’isola. L’”Archivio Storico di Lampedusa” è, visto dalla lente speculare della cultura, un luogo non luogo. Non è di fatto un museo, non è di fatto una galleria, non è uno IAT. E’ tutto questo e molto di più. L’omonima associazione messa su da Nino, ed altri, ha lo scopo appunto di raccontare ai visitatori e ai lampedusani che l’isola ha una sua storia, che è molto più estesa e complessa di quella degli ultimi 170 anni, epoca nella quale si è sviluppata la “moderna colonizzazione” dell’isola, quel periodo breve e intenso che fu condotto a partire da Ferdinando di Borbone, dopo aver sottratto l’insediamento agli inglesi. E’ appunto in questo luogo non luogo della Memoria che incontriamo Nino Taranto, persona suggerita da vari contatti dell’isola. Nino è un crocevia di racconti, di storie e di incontri, è un pezzo di Memoria vivente di questo ultimo lembo d’Italia, primo d’Europa. Chiediamo subito sulla storia, quella autentica, quella lunga nel tempo. Insediamento fenicio, avanposto romano, nei già citati scavi archeologici potrebbero essere conservati i resti di una presenza dell’uomo risalente ad epoche antecedenti l’invenzione della scrittura. Ovviamente la storia dell’isola è più complessa di quella creduta sinora. Nino ci esprime il disappunto verso una comunità che non prova interesse per questi aspetti, perché crede di essere stata la prima a civilizzare questo sasso nel Mediterraneo. Conversando scopriamo che sull’isola c’erano resti di dolmen e menhir, ovviamente tracce ritenute di scarsa importanza già dai primi coloni d’Ottocento, dunque distrutti dalla popolazione colonizzatrice assieme alla riserva boschiva. Ma i segni di una Lampedusa considerata interessante dall’uomo, crocevia nel Mediterraneo e ponte tra Europa e Africa, approdo sicuro, risultano evidenti da tempi molto più ampi di questi ultimi 170 anni e basterebbe poco per allestire un Museo della Memoria storica di Lampedusa. Oggi la popolazione e le istituzioni locali non si curano dell’identità che deriverebbe, e relativo interesse turistico, dalla costituzione di un museo e dal lavoro di recupero e studio della storia dell’isola; dal punto di vista turistico, poi, addirittura ci stiamo “provincializzando”, ribadisce costernato, proprio per il tratto estremamente di breve raggio della platea turistica che Lampedusa è in grado di richiamare. Oggi si può dire, afferma Nino, che Lampedusa è un’isola senza identità. Le è stata data quest’identità “vacanziera”, dove forzosamente negli ultimi trent’anni chi sapeva cucinare ha aperto ristoranti, chi aveva case alloggiava turisti. Non è un’isola che invece, al contrario di altre, si rivela nella sua natura di “bomboniera”, perché curata dagli abitanti, anche a proposito di memoria e storia. La natura dell’isola, e questo ci colpisce, è stata erroneamente identificata nel mare, ma Lampedusa è tanto altro, conclude Nino. Che non fosse una realtà attenta al proprio vissuto c’era sembrato evidente sin dalla constatazione degli scavi archeologici. Ma la totale disattenzione ci lascia davvero perplessi, perché, in fin dei conti, non servirebbe tanto per realizzare il progetto di una Lampedusa più “autentica”. Il tempo però non è un eterno amico, quindi occorre evitare tutti quei disastri che può causare la non curanza della propria Storia locale, trascurando di fatto la Memoria. Senza Memoria siamo privi di identità, e Lampedusa evidentemente corre questo rischio. Non vogliamo essere troppo impietosi nel giudizio, perché la bellezza e l”interesse per quest’isola, perla nel Mediterraneo, resta tutto. Però ci permettiamo di osservare che la comunità, gli amministratori e i vari livelli di governo devono intervenire per correggere una rotta che ad ora risulta rischiosa. Delegare lo sviluppo e la considerazione di Lampedusa solo all’industria turistica estiva non paga, almeno nel lungo periodo. A Lampedusa non serve, non da pienezza del ruolo e della bellezza che emana nel Mediterraneo. Se capitate a Lampedusa programmate una visita all’”Archivio Storico”, in fondo a via Roma, Nino sarà sicuramente pronto ad accogliervi con un racconto e un’informazione di un’isola che non vi aspettereste. Sottolineo in conclusione che quest’associazione e questa luogo, l’Archivio storico di Lampedusa, è anche il posto da dove riportare l’autentico souvenir, sapendo di contribuire ad un progetto molto importante. E soprattutto parlatene, perché i lampedusani, in apparenza, non si sono accorti del grande lavoro che sta conducendo Nino Taranto e il suo gruppo. Nino inoltre è molto coinvolto dalle dinamiche migratorie che vedono l’isola protagonista. Questo è un luogo di incontro, dove poter conoscere, vedere senza spettacolarizzazione, le speranze e la voglia di integrarsi di una giovanissima popolazione immigrata, che a Lampedusa vede concretamente l’inizio di un diverso futuro per sè.

NB: articolo scritto il 03-05-2016

Bambini di oggi, lampedusani di domani

Girando per Lampedusa ci siamo resi conto di quanto siamo fuori stagione turistica. Molti locali sono ancora chiusi, di fatto sembra un qualsiasi paese di provincia preso dal tramtram della quotidianità. Casualmente siamo passati vicino alle scuole elementari, ma abbiamo scoperto anche che nell’isola di Lampedusa ci sono ben 3 scuole superiori! Di fatto, l’incontro con la comunità è passato anche dai bambini, dalla scuola (per certi versi) e soprattutto da…. Buona lettura!

Un dato assolutamente interessante dell’isola è il tasso di popolazione giovanile. Siamo nel rapporto di circa 1 a 5, quindi con un’elevata popolazione scolastica. Comunque u è dato di fatto che ci siano molti ragazzi. Ci sono dunque anche le scuole, tutte quelle del ciclo obbligatorio, più tre istituti superiori, due dei quali direttamente collegati alla principale industria dell’isola (alberghiero e turistico). A proposito del nostro incontro con il mondo dell’educazione e dell’istruzione abbiamo incrociato la realtà della Biblioteca per i ragazzi, che ora si trova a metà circa di via Roma. La vostra osservazione sarà delle più naturali, una normalissima biblioteca comunale di un qualsiasi paese della Penisola. No. Si tratta di una biblioteca istituita con un progetto che emana da un appello internazionale, gestita da volontari e aperta ufficialmente due pomeriggi a settimana. Oltretutto ha una sede non idonea e a norma, non dispone di tutto il necessario per definirsi “biblioteca” (compresi scaffali per i libri) e soprattutto non è la sede definitiva. Ci spiegava Anna, operatrice della formazione e volontaria, che da più di tre anni il comune promette la sistemazione di questa sede di via Roma e sono stati spesso chiusi perché promettevano l’inizio di tali lavori in maniera imminente, invece sono tre anni che ciò non accade. C’è stata una sorta di occupazione di fatto dei locali e le attività vanno avanti, ma sono in attesa di questi lavori o di una sede più adeguata, e possiamo garantirvi che si tratta della mancanza delle norme più elementari per un luogo che deve ospitare bambini. Come dicevo, la biblioteca si basa sull’opera volontaria di personale della formazione e altri cittadini, che danno un luogo di incontro e di cultura alle future generazioni lampedusane, perché possano scrollarsi di dosso quella macchia di “comunità disordinata” che oggettivamente ci è sembrata essere. Ma l’opera volontaria più importante è quella dell’associazione “IBBY”, con sede internazionale a Basilea (Svizzera, NDA) e con una sua sede territoriale italiana. L’associazione si occupa di creare nuove generazioni di lettori, cercando di divulgare con tutti i mezzi possibili la passione per la lettura nei bambini di oggi, cittadini di domani. L’associazione ha raccolto l’appello di quei lampedusani che hanno posto la sfida, e in pochi giorni sono arrivati decine e decine di titoli, che ad oggi giacciono in degli scatoloni nell’attesa di una sistemazione definitiva dell’associazione. Nel nostro periodo di permanenza nell’isola abbiamo incrociato Mariella, italocanadese,che una volta in pensione dal ruolo di bibliotecaria a Toronto, si è dedicata ai progetti di IBBY, tra i quali questo a Lampedusa, facendosi accompagnare di volta in volta da altri volontari, come in questo caso, quando con lei c’è T., cittadina canadese. L’autentica bravura di queste donne è amirevole, perché conducono una battaglia di tipo squisitamente culturale, con l’auspicio di un futuro migliore per dei cittadini lampedusani più consapevoli. Inoltre il destino di questa piccola comunità incrocia l’esigenza identica di creazione di consapevolezza e cittadini migliori tra i migranti che qui approdano. Le difficoltà di interagire con l’attuale centro di identificazione (mi rifiuto di usare sempre i soliti termini che in sostanza non cambiano la natura di queste semiprigioni) ovviamente sembrano insormontabili. Da quelle poche esperienze, e da altre idee in seno di IBBY, è nato il libro dal linguaggio universale, il “libro senza parole”, costituito da storie disegnate che sono intellegibili da chiunque, abbattendo il muro incomprensibile dell’ignoranza di una lingua straniera. E’ ovviamente un esperimento che ha appassionato anche i ragazzi di Lampedusa. Ma Anna, e Maria (altra operatrice della formazione), ci raccontano quali sono le caratteristiche della popolazione scolastica lampedusana e le difficoltà di interazione con un’istituzione come la biblioteca. In primis, premetto, siamo sconcertati dal fatto che dal comune di Lampedusa o da parte di una qualsiasi altra istituzione siciliana, non sia giunto uno straccio di supporto logistico a tale iniziativa. Inoltre apprendiamo che tutto ciò è ingiustificabile, perché esiste uno stanziamento destinato a tale operazione, oltre che ad un degno allestimento della stessa biblioteca. I libri, è vero, fanno veramente paura. Inoltre proseguo la mia indagine sulla popolazione disabile. Tutto sommato anche in questo caso ci viene confermato quello che ci anticipò M. a proposito del centro diurno per disabili psichiatrici. Una sorta di solidarietà comunitaria non manca, ma esiste anche una certa grettezza nelle famiglie, confermando il più retrogrado pensiero meridionale. Questa volta mi riferisco alle condizioni psicologiche in cui versano alcuni ragazzi dislessici. Infatti alcuni di loro, in età scolare, hanno ricevuto adeguata certificazione e possono godere di tutta una serie di supporti e assistenza. In altri casi le famiglie si sono opposte perché magari “chissà che possono poi dire di lui… meschinu! (poverino, NDA)”. Credo sia il colmo, anche perché la dislessia (come discalculia e disgrafia) non sono dei disturbi comportamentali, né tantomeno delle disabilità psichiatriche, bensì delle difficoltà facilmente risolvibili con adeguati provvedimenti educativi. Apprendiamo a tal proposito, che oltre all’impegno degli operatori scolastici, molto avviene anche in seno alla biblioteca, dove la stragrande maggioranza dei testi procurati da IBBY sono in caratteri particolarmente leggibili anche dai dislessici, appunto. Sorte ancora peggiore è per quei disabili psichici e psichiatrici, che una volta finita la scolarizzazione e magari fuori dai programmi del centro diurno, restano completamente abbandonati a loro stessi, ovvero in completo stato di isolamento sociale. L’atmosfera all”interno della biblioteca comunque è frizzante e il ruolo assunto da questi volontari è ammirevole. Quando sarete a Lampedusa cercate di loro, anche tramite Paola, e se potete donate un libro per bambini o per ragazzi. IBBY poi, semplicemente superlativa nel suo intento. Mariella è una persona che quando è nell’isola (per periodi di una o due settimane circa) da tutto per quest’iniziativa. Dotata di grande capacità comunicazionale con i bambini, notiamo la sua enorme dote di narratrice. Ci dice infatti di definirsi cantastorie e di avere su molti progetti culturali, teatrali e sinanco del teatro dei burattini. Forse questa comunità dovrà prima o poi accorgersi che attorno c’è un universo interessato e positivo che vuole interagire. Questa comunità, come già affermato per altro, dovrebbe dimostrare più coraggio e credere in sé stessa, a partire dalle nuove generazioni. La biblioteca ha motivo d’essere, e soprattutto deve essere istituzionalizzata e messa nelle condizioni di continuare quel lavoro che avviene all’interno delle scuoole. Tutto questo per curare l’intelletto dei bambini di oggi, cittadini lampedusani di domani.

NB: articolo scritto il 29-04-2016

Il dare

La mattina del secondo giorno inizia come il più classico dei prologhi per due “vacanzieri”. Spremuta d’arancia in apertura di una succulenta colazione, sorseggiato in beatitudine di fronte al mare, pregustando un bagno, che premetto, di fatto non c’è mai stato! Ma la coscienza ben presto si riprende, proseguendo il generale risveglio del corpo e dei sensi. Siamo e restiamo “viaggiatori”, quindi prima l’azione, l’impegno, la fatica, poi… tutto il resto.; abbiamo chiesto a Melo e Paola dei sacchetti per raccogliere quel segno di inciviltà descritto ieri, cercando per quanto possibile, pur consci della poca utilità del gesto – con la prossima mareggiata da sud la spiaggia sarà punto e a capo -, di dare il nostro contributo a ripulire l’incuria altrui. Ne sono uscite 5 buste belle piene, per lo più cariche di bottiglie di plastica e residui di pic-nic in spiaggia, ma magari, chissà, anche i resti di quei pochi viveri consumati a bordo dei barconi in attraversata nel Mediterraneo carichi di disperazione e voglia di futuro. A proposito: correggo un’informazione. Lunedì sera non ci fu nessuno sbarco, si era fatta un po’ di confusione; è alle nove del mattino di martedì che di fatto è avvenuto. Non siamo stati testimoni diretti, è veramente difficile potersi avvicinare durante queste operazioni. Ma ci è stato garantito che questa volta, in maniera veramente imprevedibile, su 190 persone sbarcate la stragrande maggioranza erano minori. Nel corso della giornata ci sono state tante altre esperienze, un paio le riassumerò nel post che segue. Ma il pensiero che qualcosa stesse per cambiare, visto anche il numeroso gruppo di egiziani nello sbarco del mattino, ci ha accompagnato tutto il giorno. Molti egiziani, più del solito. Tanti minori, troppi, soprattutto non accompagnati. Se sulla nazionalità possono esserci molti dubbi, visto che quasi nessuno parlava inglese, sull’età invece la certezza è sconcertante. Solitamente i minori ci sono, ci dicono, ma su percentuali molto basse. In questo caso si tratta della maggioranza, completando il quadro con la presenza di infanti e madri assieme e di nuclei familiari interi. Anche in Sicilia, giunge la voce, che in uno sbarco la percentuale fosse superiore al 20% dei minori, quindi non siamo di fronte ad un caso estremo. Qualcosa sta cambiando, è evidente. Per restare sul pezzo, passatemi l’espressione, al pomeriggio ci rendiamo definitivamente conto che qualcosa invece sta cambiando, cioè nella nostra visione del “Dare”, visto come gesto affannoso, dato che nell’isola descritta come “accogliente”, l’accoglienza non viene fatta praticare. Si, è difficile, come si diceva, per via della “cortina burocratica”, ma se tu vuoi dare, perché è naturale, perché ti va, ed è così, si può. La conferma ne sono L. e P., incontrati per caso durante la nostra pomeridiana sosta in via Roma prima del tramonto. Sono due persone molto distinte, isolani autentici. Tra i vari discorsi che partono dopo le presentazioni, in cui noi siamo solo testimoni, magari attivi, ma testimoni, si arriva al tema del “Dare” e alla narrazione di quanto accaduto al mattino. Qui scopriamo che questi due signori sono completamente proiettati nel “Dare”, da lampedusani e da persone che considerano prima di tutto la “dignità”. Curarsi di minori o prendersi in carico l’accoglienza nel primo momento a seguito dello sbarco, per loro è naturale. Semplicemente. Qui ritorna la domanda: perché chi vuole non può? Ad ogni modo ci siamo accorti che nell’isola non viene preclusa, in linea di massima, l’ospitalità, anche umanitaria. Ma gli apparati, a tutti i livelli, forse dovrebbero rivedere seriamente alcune posizioni di “chiusura” versola dimensione umana di ciò che accade, per rispettare quelle dinamiche più autentiche che si mettono in moto quando chi fugge disperato incontra il primo disposto ad accogliere. Quello che ne nasce è un sentimento profondo, verace, un senso di umanità pervade ogni istante dell’esistere, di entrambi, tanto nel migrante quanto nell’isolano. Di cose ne sono successe altre, in quei momenti al bar, come nel resto del tempo. Non si può condensare tutto in questo pezzo di testimonianza, quindi vi rimando al prossimo post per un altro racconto intenso, nato dall’assaggio dell’isola e degli isolani, della porta d’Europa e della sua gente.

NB: articolo scritto il 27-04-2016

Il Dare