L’inizio di marzo del 2021, in ambito di reggaemusic, è stato segnato dalla morte di Bunny Wailer, torico fondatore, assieme a Bob Marley e Peter Tosh del gruppo reggae dei The Wailers, La figura di Bunny Wailer, detto anche Bunny Livingston, al secolo Nevill O’Reily Livingston, non ha trovato, per mia colpa, giusto spazio nel pezzo dedicato al Reggae. e avrebbe dovuto, anche perchè, il più giovane dei tre dei The Wailers, ha contribuito come cantante e percussionista a fondare il gruppo nel 1962, e parimenti di Bob e Peter – che cercavano un riscatto nella musica – ha rivoluzionato il panorama artistico giamaicano, contribuendo ad esportare la Reggaemusic nel mondo.
Bunny Wailer solista e adulto
Dal 1973 ha intrapreso una carriera pluridecennale come solista.
Si è spento il 2 marzo 2021 in ospedale a Kingston, per cause sanitarie non del tutto chiarite, anche se in passato fu colpito da ictus.
Grazie Bunny, grazie anche a te. La musica con le tue melodie e il tuo ritmo ha vissuto anni molto appassionanti.
L’11 settembre scorso si è diffusa La notizia della morte di Frederick Nathaniel Toots Hibbert, a tutti noto come Toots Hibbert, Fondatore negli anni Sessanta di una delle band più attive nella musica giamaicana, i The Maytals, poi noti definitivamente al grande pubblico mondiale come Toots and the Maytals. Totts è una leggenda che lascia al mondo la definizione di “Reggae” nella discografia mondiale; fu il primo ad utilizzare il termine nel 1968 con il brano “Do the reggae”
e a far uscire la definizione dalla tradizione popolare giamaicana e riversarlo, con il carico di significati che poi ha comportato, nel nuovo genere che si affermava. Maggiori dettagli e curiosità in Un post a proposito delle origini del Reggae.
Giunti alla terza o quarta generazione di artisti, che hanno varcato altri orizzonti di sperimentazione musicale, con Toots muore uno degli ultimi padri, reale maker del movimento culturale, filosofico e musicale che poi con Bob Marley divenne mondiale dagli anni Settanta. La vitalità di questi artisti, anche dal punto di vista intellettuale, è indubbia. Toots Hibbert ha pubblicato in estate un suo ultimo lavoro, “Go to be tough” (Essere duro),
un autentico testamento spirituale.
Grazie Toots per le belle vibrazioni che ci hai regalato.
Concerto reggae del festival RototomSunSplash. @dolcevitaonline.it
Premessa
In chiusura del lungo ed articolato post sul reggae giamaicano, e l’importanza mondiale dell’Afroreggae di Alpha Blondy, mi ero ripromesso di trattare in uno specifico post la scena del reggae italiano, che di fatti è molto ricca ed entusiasmante, come vedremo. Che dire? La stessa raccomandazione dell’altro post: tempo per leggere e buona predisposizione all’ascolto di molta buona musica!
Il movimento reggae (dando un’accezione molto ampia al genere secondo l’interpretazione degli artisti nostrani) nel nostro Paese ha visto una platea ampia di musicisti attivi nei differenti stili del ritmo giamaicano, anche se ha dominato nella produzione molto roots. Di seguito vediamo i principali protagonisti – band o singoli interpreti – per decenni, partendo dalle origini (siamo agli inizi degli anni Ottanta) fino agli artisti di maggior peso nel panorama reggae italiano, molto apprezzati anche all’estero.
Anni Ottanta
Inizialmente la scena reggae italiana era povera. I gruppi degli anni ottanta che suonavano in levare si potevano quasi contare sulle dita di una mano. Gli Africa Unite, band nata a Pinerolo (Nel torinese, NDA), fu il primo esempio di un certo peso che dal 1984 irruppe con il reggae in Italia e nel 1987 pubblicarono il loro primo album, al quale ne sono seguiti altri 15, affermandosi come uno dei gruppi più longevi e prolifici del reggae italiano.
Ma oltre al Piemonte degli Africa Unite, anche in altre regioni il reggae stava appassionando vari giovani musicisti. Un documentario che ben rappresenta e racconta quel periodo è “Rockman”, firmato da Tommaso Manfredi ed interamente dedicato alle origini del reggae in Puglia e alla storia di Militant P, voce e chitarra degli Struggle e fondatore del gruppo che divenne poi Sud Sound System, oltre che a raccontare varie band baresi, tra le quali i Suoni Mudù.
Contemporaneamente nascevano gruppi in Sicilia (Jah Children Family), in veneto (Puff Bong), regione che vide la produzione del primo disco reggae in assoluto di un gruppo italiano nel 1986. Da questo primo progetto veneto nel 1989 nasceranno i Pitura Freska;
Anni Novanta
Giungendo agli anni novanta occorre rilevare come gli ambienti urbani furono il terreno di coltura per la nascita di numerosi gruppi reggae, legati al movimento politico e sociale denominato Posse. Le Posse musicali si sviluppano principalmente nell’ambito dei centri sociali e sono caratterizzate da un linguaggio antagonista ed antifascista, concentrate su tematiche sociali e politiche attraverso la musica reggae, raggamuffin e rap. Da qui vedono la luce gruppi come i 99 Posse che, dal centro sociale Officina 99 di Napoli, hanno unito musica e militanza ed ottenendo ampi consensi sia dal pubblico che dalla critica.
Da rimarcare come questo gruppo napoletano si sia sciolto e riunito varie volte, vedendo parallelamente attivi vari progetti dei suoi protagonisti principali, Mag (voce femminile) e Zulù (Front-man), che hanno avuto una carriera interessante anche come solisti.
Nella scena romana il raggamuffin dei Villa Ada Posse racconta la vita dei ragazzi e le problematiche legate al quotidiano della capitale, non trascurando tematiche relative alla liberalizzazione della cannabis, ma incidono anche canzoni d’amore e di totale disimpegno.
Molto impegnati politicamente sono invece i Radici nel Cemento, un gruppo di Fiumicino (Roma), comparso sulla scena reggae italiana nel 1993, anche se in formazione stabile dal 1995. Le sonorità sono per la maggior parte reggae, con chiare venature dub ed alcune variazioni più veloci (Rocksteady e Ska). Questo gruppo della scena romana si configura come uno dei più longevi ed interessanti del reggae italiano, oltre che affermati anche a livello internazionale, dove hanno conquistato il pubblico con la loro capacità di raccontare storie e circostanze in romanesco. Una per tutte questa sul traffico di Roma!
Per divagare negli ambienti ska, un riferimento lo merita anche il trombettista siciliano Roy Paci, che ha prodotto veramente moltissimi progetti musicali, ma è divenuto celebre sulla scena reggae (anzi, ska per la precisione) come strumentista dello spagnolo e celebre Manu Chao, poi fondatore del gruppo Aretuska, creando fantastiche suggestioni in studio e suonando in dei live molto intensi in tutto il mondo, oltre che a comparire spesso in televisione, garantendo una platea di ascolto del genere reggae-ska ad un vastissimo pubblico. Un suo brano per tutti questa dedicato alla sua. Sicilia
Per tornare alla produzione roots, assieme agli Africa Unite, possiamo annoverare tra i gruppi più importanti di musica reggae in Italia i bergamaschi Reggae National Tickets, con il loro roots reggae con elementi pop, ma molto intenso e profondo, caratterizzati da una eccellente produzione musicale.
Merita una citazione particolare il loro cantante Stena, che nel 2000 lascia l’Italia alla volta della Giamaica e cambiando nome in Alborosie, riesce ad imporsi sulla scena reggae internazionale come musicista, ma anche come produttore.
Originario salentino quale sono, non posso non dedicare una menzione particolare ai sopra citati Sud Sound System, “gruppo che dagli esordi ha sempre continuato a proporre reggae di qualità”, come afferma lo stesso Bunna. Usando il locale dialetto, hanno prodotto contenuti di alta qualità, ai livelli degli artisti giamaicani, anzi, con alcuni di loro collaborando per dei brani, come la canzone dedicata a Lampedusa
e “Now is the time”,
prodotte con la collaborazione dell’artista giamaicano Luciano o, sempre con il giamaicano Antony Johnson, per “Jah Jah is calling”, dal forte trasporto religioso.
Invece appartiene alla scena fiorentina Jaka, anche se siciliano di nascita; infatti utilizza il suo dialetto di origine per veicolare Pace e Amore, oltre che la battaglia per la legalizzazione piena della cannabis, tratto comune alla quasi totalità dei gruppi reggae italiani.
Agli inizi degli anni novanta compare una formazione che lo stesso Bunna definisce “inusuale”. I Bluebeaters, rappresentati dal vocalist carismatico Giuliano Palma, si propongono sulla scena con elementi provenienti da vari gruppi, quali i Casino Royale, gli stessi Africa Unite di Bunna (in questa formazione bassista) e Fratelli di Soledad. Il merito di questa band è di aver conservato un’impronta dello Ska originale, usato come chiave di interpretazione di numerosi brani classici del repertorio internazionale ed italiano, come questa “Messico e nuvole” di Jannacci, divenuta una sorta di bandiera musicale del gruppo.
Dal duemila ad oggi
Negli anni duemila sono molti gli artisti italiani che si affermano sulla scena musicale reggae. Sempre dalla Puglia, vera El Dorado per la produzione di questo genere musicale, vediamo Mama Marjas, un’interprete che si fa notare per bravura e ottime capacità di interpretazione.
Bunna sostiene che “la sua voce e il suo modo di porsi sul palco, fanno di lei una delle cantanti, della scena reggae nostrana, più interessanti”. Si configura infatti come un’interprete in grado di esplorare anche altri generi della musica caraibica, come la Soca, alternando liriche in inglese ed in dialetto tarantino.
In chiusura mi sento di annoverare tra le nuove fila coloro che stanno ottenendo più consensi anche a livello internazionale, ossia i Mellow Mood, gruppo rappresentato dai fratelli gemelli Jacopo e Lorenzo Garzia, che con il loro talento hanno trovato la giusta direzione per raccogliere consensi sia per le capacità di scrittura che per le loro interpretazioni.
Per concludere
Sono molti gli artisti che ho lasciato fuori da questa panoramica del reggae italiano, non perché non li gradisca musicalmente, né per ragioni ideologiche, vista la grande mescolanza di generi che i percorsi di molti di loro hanno sperimentato. Dai siciliani Tinturia, ai calabresi Spasulati Band, dai salentini Boo Boo Vibration, alle storiche band campane dei Bisca e degli Alma Megretta. E come dimenticare i sassofonisti (sempre campani) Daniele Sepe ed Enzo Avitabile, che hanno contaminato spesso la loro musica con sonorità reggae. Volendo andare di finezza dovrei citare, per pregio di musica e testi, anche un cantautore prevalentemente rock come Ivano Fossati, che ha usato il reggae per il suo album “La pianta del te”. Ma evidentemente il mio intento qui era quello di ripercorrere tutti quei musicisti che sono rimasti fedeli e continui nella produzione artistica, dedicandosi prevalentemente al roots e allo ska, al massimo ala dance all, per ripercorrere una strada di elevata produzione artistica.
Be’, per citare i miei conterranei Sud Sound System, “Sciamu a ballare” e one love a tutti!
Nota bene: avendo lo scopo di divulgare alcune informazioni, mi sono preso la licenza di alcuni errori volontari, anche se in buona fede, che ho precisato nelle seguenti Annotazioni
Per la categoria “La musica che gira intorno” vi propongo questo ricco pezzo, anche se molto riduttivo rispetto alla quantità di materiale presente in rete, su un genere che amo molto e che molto è servito per la mia crescita personale, oltre che per il suo rappresentante massimo e tutta la scena musicale che gira attorno. Complessivamente il reggae, Bob Marley e tutti gli artisti citati di seguito abbracciano sessant’anni di storia della musica e tra loro ve ne sono alcuni, al di là dello stesso Re del reggae, che hanno fatto la storia della musica a livello internazionale. Il mio consiglio in premessa è di rilassarvi, prepararvi ad una lunga carrellata di brani e, se non avete tempo ora, di salvare questo post tra i preferiti e leggerlo poi con calma, perché si tratta di un viaggio bello e lungo nella musica giamaicana.
Lo spunto per quest’excursus storico, e sonoro, mi è stato offerto dal 39° anniversario della morte di Bob Marley dell’11 maggio scorso. In premessa specifico che questo lavoro non ha nulla di ufficiale né aspira alla perfezione; come per altri lavori del genere, caratterizzati da molti contenuti, ma un intento divulgativo.
Una curiosità
Iniziamo da una curiosità , legata al suo nome. Molto spesso questo genere musicale viene associato ai capelloni, magari anche drogati, e comunque disprezzato per la potenza del messaggio che si porta dietro. Ed in effetti nasce sotto il segno della discriminazione; il nome Reggae infatti è dispregiativo, coniato dagli inglesi per deriderlo. Quando si sviluppa, cercando di definire la sua sonorità, non si era ancora trovato un nome per questa nuova forma musicale e molti dissero che suonava come “ragga”, cioè grezzo, rozzo, vecchio. Il nome presto muta in “raggay”, e poi in reggae.
Patrimonio di tutti.
Ma al di là delle maldicenze e delle originarie discriminazioni , esso si affermò rapidamente, divenendo patrimonio culturale per tutta l’umanità. Il reggae, infatti, dal 29 novembre 2018 entra nei Patrimoni orali e immateriali dell’umanità UNESCO., vedendo così riconosciuta la sua importanza a livello mondiale come genere musicale condiviso ad ogni latitudine e tra le generazioni.
Genesi,caratteristiche ed evoluzione
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Il Reggae vede in sé racchiusa l’esperienza di vari generi musicali (Jazz, Rhythm & blues, Gospel, Soul) e si sviluppa in Giamaica a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, più precisamente tra la fine del 1967 e il primo 1968. Viene prevalentemente suonato con gli strumenti tipici delle band dell’epoca (come chitarra, basso, batteria, tastiera, organo), ma nel tempo i vari gruppi hanno integrato anche percussioni africane e tutta una gamma di strumenti etnici, a seconda del luogo dove quel determinato gruppo produce musica. Il picco massimo di popolarità a livello mondiale venne raggiunto negli anni settanta, in particolare con il sottogenere roots reggae, ma tutt’oggi gode di un vasto pubblico soprattutto nelle sue forme più moderne come la dancehall, Calypso o reggaetom. Ma andiamo per ordine e vediamo le principali tappe della sua genesi.
Guardando agli anni sessanta, uno dei generi che fu alla base del reggae è lo ska,ispirato all’R&B, ascoltato dai giamaicani dalle radio statunitensi che all’epoca da Florida e New Orleans trasmettevano con potenza tale da raggiungere il territorio dell’isola caraibica. Con l’aggiunta del ritmo in levare, lo ska fu la reinterpretazione dell’R&B in Giamaica, nato per ballare con i suoi ritmi frenetici, risultando molto popolare durante gli inizi degli anni sessanta; ben presto altre influenze arrivarono dal jump blues e da differenti stili caraibici come il jazz afrocubano, big band swing e altri ritmi. Un esempio per tutti della vitalità dello ska è questo brano del gruppo The Skatalites proprio dell’anno dell’indipendenza giamaicana.
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Lo Ska infatti accompagnò la fine del colonialismo inglese, concretizzatasi con l’indipendenza della Giamaica il 6 agosto 1962, risultando così il tramite per esprimere l’ottimismo e le speranze del popolo. Proseguendo nelle tappe storiche di avvicinamento al reggae, dobbiamo registrare che l’estate del 1966 fu una stagione particolarmente calda, tale da rendere difficoltoso suonare e ballare lo ska; sia i dj con i loro sound system sia i musicisti strumentali decisero così di rallentare il ritmo, dando alla luce il rocksteady, caratterizzato da suoni più caraibici e una maggiore presenza della sezione ritmica. Molti sostengono che il nome fu ispirato da questo brano di Alton Ellis
musicista all’epoca molto popolare in Giamaica; i testi del rocksteady divennero socialmente e politicamente più maturi rispetto allo ska e le sonorità divennero particolarmente armoniose. Per questo, in un certo senso, rappresentò il trampolino di lancio per il reggae, che diventò la musica più seguita dopo il suo declino – anche se non scomparve del tutto – avvenuto alla fine degli anni sessanta. Alla fine del decennio, infatti, interviene l’elemento fondamentale per la svolta rappresentato dai produttori dei principali studi di registrazione, che vollero cambiare nuovamente l’approccio della musica giamaicana. Durante l’epoca del rocksteady i maggiori produttori continuarono a dominare il music business in Giamaica, ma ad un certo punto intercettarono il gusto del pubblico, ormai stanco di un ritmo così lento e desiderosi di qualcosa che fosse più ballabile e senza per questo perdere lo spirito di una musica vicina alle persone. Il nuovo genere che andava emergendo presentò, al contrario del rocksteady, un ritmo dall’andamento più spezzato e convulso, e rispetto al rock con la caratteristica peculiare di invertire il ruolo di basso e chitarra, con il primo molto più dominante. Giungiamo dunque alla fine del 1967 all’”early reggae”, chiamato così in seguito per distinguerlo da altre forme successive. Esso si caratterizzò per molteplici sfumature. Oltre alle sonorità tipiche dello ska e del rocksteady, erano presenti forti influenze soul, supportate da nuove introduzioni strumentali come l’organo. Anche gli spunti armonici risultano variegati ed originali. La diffusione del reggae venne decretata da gruppi come Beverleys All Stars e brani come questo,
caratterizzati da robuste linee di basso, chitarra in levare, la batteria in rimshot (ovvero un colpo dato prendendo sia la pelle del rullante sia il bordo in metallo) e, come nel rocksteady, fiati meno presenti. Prima di allora il termine “reggay” era usato per descrivere una danza in voga in Giamaica e non era associato allo specifico stile oggi diffuso; generalmente si attribuisce ai Toots & The Maytals il merito della diffusione del termine con la pubblicazione nel 1968 del brano “Do The Reggay”.
Di solito, il termine Reggae viene usato per definire diversi tipi di musica giamaicana, tra cui in maniera molto generica anche ska e rocksteady, o veri e propri sottogeneri come dub o dancehall. Inizialmente, la musica giamaicana era un fenomeno del ghetto, ed era spesso associata alla violenza e alle gang di teppisti, ma l’album di Jimmy Cliff (figura fondamentale per la sua diffusione) Wonderful World Beautiful People del 1969 unì il reggae con la filosofia “pace e amore” degli hippie.
Il reggae dagli inizi degli anni settanta andò associandosi al movimento rastafari, fortemente influenzato dai musicisti di quel decennio e del successivo. Tuttavia, gli argomenti trattati nei brani reggae erano lontani dalla religione rastafari, proprio perché da un certo punto in poi i temi dominanti erano l’amore, la sessualità o aspetti sociali. Da notare anche come i rastafari non prendevano parte alla vita sociale della Giamaica, preferendo vivere isolati e conducendo un’esistenza semplice e al contatto con la natura, scandita da precise regole religiose e comportamentali. Ma le difficoltà sociali che affrontò l’isola in quel periodo, quando si registrarono disoccupazione, crimini e violenze, spinsero le nuove generazioni cresciute dopo l’indipendenza a reagire con l’arma più potente di cui disponessero, ossia la musica. All’alba del decennio considerato un largo numero di essi abbracciò la religione rastafari, non solo come manifestazione di ciò che volevano ottenere dal governo, ovvero pace, amore e lotta alla corruzione, ma volendo rappresentare un alternativo stile di vita nella società giamaicana, logorata dalla povertà. Fu proprio quando gli artisti reggae cominciarono a convertirsi al rastafarianesimo che gli elementi tipici afro-giamaicani divennero allora il tema centrale come simbolo d’identità e orgoglio. Da qui in avanti emerge la figura del Re del Reggae Bob Marley e del gruppo dei The Wailers, già attivi sulla scena musicale rocksteady, facendo poi da tramite tra questa religione e il resto del mondo attraverso il nuovo stile giamaicano. Il lato grezzo e selvaggio dei primi ritmi reggae scomparve e all’inizio degli anni settanta emerse il roots, evidenziando nelle canzoni temi legati alle radici africane di gran parte del popolo giamaicano.
Bob Marley: la leggenda
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Robert Nesta Marley, nome vero di Bob, nasce il 6 Febbraio 1945 sulla costa Nord della Giamaica dal frutto della relazione tra Norman Marley, capitano dell’esercito inglese, e Cedella Booker, giamaicana. Bob Marley visse da povero ed orfano, aspetti che risultano la chiave di lettura per capire una sensibilità poetica fuori dal comune. Si fece portavoce di due concetti fondamentali del credo rasta: da una parte l’odio verso Babilonia, ossia il mondo occidentale bianco, in contrapposizione con l’Etiopia, terra madre che un giorno accoglierà la gente di Jah (il Dio rasta); dall’altra il contrasto verso la cultura imposta dal regime politico egemone in Giamaica. Le basi musicali del giovane Marley si fondano sul rock di Elvis Presley, il soul di Sam Cooke e Otis Redding e il country di Jim Reeves; inizia a fare musica con una chitarra autoprodotta, che gli sarà fedele fino all’incontro con Peter Tosh, che ne possedeva una acustica vecchia e scassata. I due, assieme a Neville O’Riley Livingston, costituiscono il primo nucleo dei Wailers (coloro che si lamentano).
Da li in avanti la musica di Marley entra in simbiosi con la storia del suo popolo, fino a divenirne ambasciatore artistico dagli anni settanta in poi. La notorietà dell’artista e la sua figura di guida spirituale inizia grazie al fiuto di Chris Blackwell, fondatore della Island Records, principale esportatore di reggae nel mondo. Per veicolare il reggae dei Wailers fuori dalla Giamaica si pensò di “occidentalizzare” il suono con l’uso delle chitarre e accenni rock nella sua musica, non tanto da snaturarne il messaggio, considerato che per i giamaicani il reggae è uno stile che vuole condurre alla liberazione del corpo e dello spirito, musica impregnata di un profondo misticismo insomma. Un esempio di questa fase della produzione musicale di Bob Marley è “Catch a Fire”, album del 1973.
Sulla fine degli anni Settanta Bob Marley e i Wailers affermarono il loro successo prima con “Babylon By Bus”
(registrazione di un concerto a Parigi), poi con “Survival”.
In quel periodo sono la più famosa band della scena musicale mondiale e infransero i record di vendite discografiche in Europa, come dimostrò L’album “Uprising” del 1980, entrando in ogni classifica europea. La salute di Bob però in quel periodo peggiorò e durante un concerto a New York quasi svenne, circostanza che si verificò la mattina dopo (il 21 Settembre 1980) durante un’uscita per un po’ di jogging a Central Park. Alcuni giorni più tardi si scoprì che era affetto da un tumore al cervello e per i medici non gli restava più di un mese di vita. La moglie Rita Marley da questo episodio espresse l’idea di annullare il tour, ma lo stesso Bob insistette per continuare. Così il 23 settembre tenne un meraviglioso concerto a Pittsburgh dal titolo “Live for ever”,
prima dell’annullamento definitivo del tour che lo impegnava in giro per gli Stati Uniti. In questo periodo si completò il suo percorso spirituale; infatti egli fu trasportato a Miami, dove fu battezzato Berhane Selassie nella Chiesa cristiana Ortodossa Etiopica il 4 novembre 1980. Cinque giorni dopo, nell’ultimo disperato tentativo di salvargli la vita, Bob venne trasferito in un centro di trattamento del cancro in Germania, dove trascorse il suo 36° compleanno. Tre mesi dopo, l’11 maggio 1981, morì in un ospedale di Miami.
@alany.it
Il suo funerale in Giamaica, tenutosi il 21 maggio 1981, potrebbe essere paragonato al funerale di un re. Centinaia di migliaia di persone (compresi il Primo Ministro ed il leader dell’opposizione) ne presero parte. Dopo la funzione il corpo fu portato al suo luogo di nascita, dove si trova tutt’ora all’interno di un mausoleo, divenuto ormai un vero e proprio luogo di pellegrinaggio per la gente di tutto il mondo.
Il roots oltre Bob
Molti, moltissimi, sono gli artisti di un certo peso che hanno contribuito in questi sei decenni alla nascita del reggae, dei suoi sottogeneri, e alla loro diffusione in tutto il mondo, denotando l’ambiente musicale reggae come uno dei più prolifici. Ma su due in particolare vorrei soffermarmi, lasciando a voi il piacere di scoprirne altri in un gioco di incontri e collaborazioni che in Giamaica è una via quasi obbligata per fare buona musica.
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Il primo è Peter Tosh (pseudonimo di Winston Hubert McIntosh). Nato il 19 ottobre 1944, è uno dei protagonisti assoluti per la diffusione del reggae a livello mondiale e per un certo tratto della sua carriera fu componente dei The Wailers. Dalla zona rurale ad ovest dell’isola dov’è nato, da giovane si trasferisce a Trenchtown, il ghetto della capitale Kingston. Lavora con il produttore Joe Higgs, che gli fa conoscere quelli che tra il 1965 e il 1973 saranno i suoi compagni nel gruppo The Wailers, Bob Marley e Bunny Wailer, fino allo scioglimento della band per motivi personali. Da quel momento inizia la carriera solista, che lo porta a suonare al One Love Peace Concert davanti ai principali esponenti della politica giamaicana. Nella sua carriera collabora anche con Mick Jagger dei Rolling Stones, e sarà ospite del Saturday Night Live nel 1978. Nel 1987 si aggiudica il Grammy Award come miglior album reggae con No Nuclear War.
Muore l’11 settembre di quell’anno, assassinato nella sua casa di Kingston dove si trovava con la moglie Joy e l’amico dj Jeff “Free-I” Dixon,; quando un malvivente locale, Dennis “Leppo” Lobban, irrompe con due complici per una rapina, alla richiesta di denaro Tosh si oppone e i criminali aprono il fuoco uccidendo sia il cantante che l’amico DJ.
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Un altro artista giamaicano di grande spessore è Gregory Isaacs; nasce a Kingston nel 1951 e negli anni ‘settanta si afferma come uno dei più prolifici e popolari cantanti di roots reggae. Ha pubblicato numerosi singoli auto-prodotti con la sua etichetta African Museum, fondata nel 1973 con Errol Dunkley. Molte produzioni di Isaacs rivelano il tema delle radici del reggae, ma era ugualmente propenso a comporre materiale rock più tradizionale. Tra i suoi brani di successo di questa produzione, ad esempio, troviamo “My Only Lover”.
La notorietà internazionale arriva alla fine degli anni settanta con canzoni come “Soon Forward”
e altri brani che spesso vengono ripubblicate in compilation di quel periodo. Poi Isaacs sottoscrisse un contratto con la Island Records, pubblicando tra gli altri l’album Night Nurse (1982), probabilmente il disco più famoso tra i suoi fan internazionali.
Dopo aver firmato vari contratti con differenti case di produzione, dal 1990 la sua etichetta African Museum ha continuato a produrre tutta la musica di Isaacs, divenendo a sua volta produttore di altri artisti. La sua carriera va avanti fino al primo decennio degli anni duemila; gravemente malato, muore di cancro ai polmoni nella sua casa a Londra il 25 ottobre 2010 all’età di 59 anni.
Ascoltando il sound di Tosh e Isaac vi renderete conto come loro rappresentano due tra le voci più significative del reggae giamaicano, contribuendo con qualità artistica e spessore musicale della loro produzione all’innalzamento degli standard musicali internazionali.
L’afroreggae di Alpha Blondy
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Come visto, le radici africane del popolo giamaicano e la religiosità dello stesso Bob Marley, oltre che il suo impegno per lo Zimbawe, denotano una forte presenza della cultura afro nel reggae; quindi in questa ricostruzione storica, seppur sommaria, del ritmo in levare non si può escludere una citazione del reggae di matrice africana. Un artista africano di roots reggae che amo in maniera particolare è Alpha Blondy, all’anagrafe Seydou Konè.
Primogenito di nove figli, è nato nel 1953 a Dimbokro in Costa D’Avorio. Fondò già da ragazzo il suo primo gruppo musicale: l’Atomic Vibration, ma dopo il suo trasferimento in Liberia cantò prevalentemente in inglese. Nel 1976 si trasferì negli Stati Uniti d’America dove studiò economia e commercio alla New Yorker Columbia University. La sua prima esibizione avvenne a New York con il gruppo reggae Monyaka. Successivamente, alla fine degli anni settanta egli produsse con un giamaicano sei titoli, ma quest’ultimo scomparve con i suoi nastri e Seydou ebbe un esaurimento nervoso. Dopo il suo ritorno in Africa nel 1981 venne internato dai suoi genitori in un istituto di igiene mentale. Nel 1982 incise insieme ad alcuni musicisti del Ghana il suo primo album, Jah Glory, grazie al quale vinse tre dischi d’oro e nel 1985 si esibì per la prima volta in Europa. La sua musica può essere definita appartenente al genere Afro-Reggae, con evidenti influenze africane, europee e caraibiche. I suoi lavori si orientano sempre verso il Roots. L’album Jerusalem rappresenta una pietra miliare della sua carriera musicale.
Alpha Blondy canta i suoi testi in ebraico, inglese, francese, arabo e in alcuni dialetti dell’Africa Occidentale (come il baolé ed il dioula). Un esempio ne è questo brano molto bello, una preghiera in dialetto africano.
Come artista si distingue per il suo impegno religioso ed umanitario e promuove l’unità dei tre monoteismi: ebraismo, cristianesimo ed islam, come testimonia il fatto che durante i suoi tour egli porta con sé la stella di Davide, una Bibbia e il Corano. Alpha Blondy ha avuto anche un’esperienza cinematografica nel 1988, comparendo nel film Les Guérisseurs (I guaritori) del regista suo connazionale Sidiki Bakaba, dove si racconta la società africana attraverso la piaga dell’usura. Il reggae-man africano ha prodotto l’ultimo album nel 2018 ed è ancora in attività.
E in Italia?
Il reggae ovviamente ha visto un suo movimento anche in Italia, Dove in più di trent’anni, forse anche quasi 40, decine e decine di gruppi e singoli artisti hanno percorso tutti i generi ed i sottogeneri del ritmo in levare, con produzioni artistiche di altissima qualità ed esempi di musicisti che hanno conquistato la scena internazionale. Ma avendo lanciato sin troppi stimoli musicali ed una quantità, lo riconosco, impressionante di informazioni, e perché la scena reggae nel nostro paese non esca troppo ridimensionata, occorre uno spazio d’approfondimento dedicato, che potete leggere Qui.
Nota bene: Per le parti riferite al movimento internazionale della musica reggae, non volendo ulteriormente allungare un articolo già ricco di contenuti, ho fatto delle annotazioni che potrai leggere Qui.
Arrivati a questo punto non ho null’altro da aggiungere se non l’augurio di buon ascolto e Peace and love a voi tutti!
Rileggendo, e ovviamente riascoltando il materiale sonoro, il post dedicato al Reggae giamaicano mi sono reso conto di aver lasciato fuori troppe cose. Mi premeva quindi fare delle annotazioni, giusto per integrare le segnalazioni d’ascolto, che per il post sul Reggae in Italia saranno invece più puntuali.
Il reggae, come visto, è andato molto avanti negli anni, anche come presa di consapevolezza di una cultura ben strutturata, che nel 2018 ha avuto il suo riconoscimento da parte dell’UNESCO. Il protagonista assoluto è stato Bob Marley, ma il grande King of Reggae ha gettato più di un seme affinché il reggae proseguisse a diffondersi ed alimentare il fuoco della sua passione. Il primo di questi semi si chiama Ziggy, nato nel 1968. Della Marley Family, Ziggy è il maggiore tra i figli di Bob, che ha la voce spiaccicata a quella del padre, e anche tanta bravura direi. Ziggy produce musica inizialmente insieme ai suoi fratelli, riuniti nel gruppo dei Melody Makers, ma in seguito come solista.
Dei gruppi giamaicani mi premeva segnalare gli Israel Vibration, in attività da più di quarant’anni, che tra i loro componenti hanno alcuni poliomielitici, figli di quella generazione che tra gli anni quaranta e cinquanta fu colpita massicciamente nell’isola caraibica. Vi posso assicurare che dal vivo sono uno spettacolo, riuscendo a trasformare le loro persone con handicap fisico in figure armoniose che seguono il ritmo del reggae con movenze flessuose del corpo, esaltando i messaggi di spiritualità e pace dei quali sono portatori. Qui innesto un ricordo personalissimo: nel Rototom Sun Splash del 2002, quando ancora il festival reggae era tenuto in Italia, da ragazzo disabile avevo accesso ai bagni dedicati; ogni mattina degli otto giorni di permanenza incontravo uno dei due cantanti, che per handicap diverso e medesime necessità frequentava le stesse toilette. Un’esperienza umana incredibile: fuori da quel bagno, ogni giorno, erano sorrisi, piccole frasi di cortesia e tanta cordialità. Ovviamente la sera della loro esibizione ero in prima fila e subito dopo mi fermai a chiacchierare con il cantante sul prato, dove era venuto a sistmarsi riconoscendomi e cercandomi tra la folla, prolungando così quella fugace frequentazione ricca di empatia. Dopo questo ricordo, forse insignificante per i più, a voi la profondità degli Israel Vibration.
Sulla scena internazionale dal 1977, non si può non citare il gruppo britannico degli UB40; la loro musica si caratterizza per una grande contaminazione con il pop e il rock, ma resta un reggae di elevatissima qualità artistica. Gli UB40, divenuti celebri negli anni Ottanta, hanno conquistato la ribalta con brani come “red red wine”.
Spostandoci di decennio e rimanendo in Europa, nati nel 1998 e facendosi notare dai primi anni duemila, risulta molto interessante il gruppo berlinese dei Seeed, che ho conosciuto ed apprezzato ai tempi dell’erasmus in Belgio. Ringrazio sempre la mia compagna di appartamento tedesca dell’epoca per avermeli fatti conoscere, perché rappresentano a mio parere una qualità di produzione ed interpretazione indiscussa, con sonorità moderne, che vede un uso dell’elettronica molto importante, ma mai perdendo il filo principale del roots-reggae.
Tra gli africani merita una menzione Tiken Jah Facoly, nome d’arte di Doumbia Moussa Fakoly, reggaeman della Costa D’avorio e connazionale di Alpha Blondy, artista veramente profondo in attività dal 1993.
Tornando al continente americano, da ragazzo mi ha fatto molta compagnia il cileno Enrique “Quique” Neira Leiva, in arte semplicemente Quique Neira.
Ha iniziato come vocalist del gruppo di Santiago del Cile Gondwana,
e poi avviatosi ad una carriera solista; con la produzione di un bel suono, sulla scena reggae internazionale non ha sfondato, ma resta un bell’esempio di roots-reggae di matrice sudamericana.
Nello Ska, tornando alla scena europea, spaccano gli spagnoli Sca-P, sciolti e riunitisi varie volte durante la loro carriera come band. Nati nel 1994 a Madrid, hanno concluso una prima volta la loro esperienza nel 2005, per poi riprendere tra il 2008 e il 2014; riunitosi nuovamente nel 2018, sono ancora in attività. Hanno fatto ballare per più di un decennio le piazze di tutto il mondo, e continuano ancora oggi, con un ritmo tosto tra Ska e punk molto coinvolgente dal vivo. Questa sulla legalizzazione della cannabis è una delle loro canzoni più celebri.
Infine, una citazione particolare è per Manu Chao, artista eclettico e difficile da definire, nato in Francia da genitori spagnoli esiliati per sfuggire alla dittatura di Francisco Franco, che partendo da una esperienza rock-punk con la band dei Manonegra negli anni Ottanta, ha poi interpretato al meglio le sonorità reggae-roots-ska con quel tocco di pachanca. La sua voce cristallina e poetica è diventata famosa al grande pubblico per “Clandestino”, vera bandiera musicale dell’artista franco-spagnolo.
Manu Chao possiede un bar a Barcellona, il Mariatchi, situato nel quartiere Barrio Gotico, dove lo si può incontrare mentre improvvisa una jam session con amici e fan, in cima alle future tappe del prossimo viaggio con Sonia.
Aggiunti per spirito di completezza questi ulteriori esempi della scena reggae internazionale, non mi resta che salutarvi con un One Love”