
Sulle nostre tavole abbiamo un ingrediente a cui nessuno può rinunciare, l’ingrediente che crudo condisce le insalate e cotto imbiondisce cipolle, …
L’olio d’oliva: Il Re della tavola
Sulle nostre tavole abbiamo un ingrediente a cui nessuno può rinunciare, l’ingrediente che crudo condisce le insalate e cotto imbiondisce cipolle, …
L’olio d’oliva: Il Re della tavola
Riprendiamo il percorso di Opposte Visioni tra le tante realtà che si occupano di disabilità, dove essa è intesa, vissuta e promossa nella sua componente “attiva”, o dinamica, se preferite.
Ho sentito negli scorsi mesi per il Disability Pride Network Samuela Fronteddu, Presidentessa, ispiratrice e anima di Energy Family Project. Potete leggere il suo intervento per intero Qui. Di seguito una sintesi di quell’intervento, il quale apre spazi di riflessione che vanno ben al di là della disabilità, perché i presupposti e le modalità hanno una profondità tale da riguardare l’approccio verso una “nuova comunità umana”. Buona lettura.
Energy Family Project APS è un’organizzazione nazionale nata nel 2019 con sedi e gruppi attivi in tutta Italia. L’associazione supporta famiglie con bambini e singoli individui affetti da Agenesia degli arti, gravi amputazioni e malformazioni. Conosciamo questa realtà attraverso la testimonianza di Samuela Fronteddu, fondatrice e Presidentessa dell’associazione, coinvolta dall’Agenesia degli arti perché madre di Giulio, bambino menomato del braccio destro.
Samuela, raccontaci un po’ di Energy Family Project…
L’associazione ha trovato spazio ideale già dopo la nascita di mio figlio, ma è nata ufficialmente un anno fa. Ci occupiamo di sostenere le famiglie che affrontano queste patologie, che al contrario di ciò che si potrebbe pensare, sono tante. Uno dei nostri obiettivi è quello di creare rete tra loro. Attualmente sosteniamo 500 famiglie in tutta Italia, sia a livello morale, burocratico e terapico e registriamo ogni settimana uno o due nuovi contatti di famiglie.
Quali le problematiche più importanti che affrontate?
Ce ne sono tante. Mi preme sottolineare, ad esempio, come in Italia non sono state mai adottate linee guida fisioterapiche pediatriche per bambini con amputazione. Se nessuno le scrive, nessun bambino riuscirà , di conseguenza, a iniziare un percorso di riabilitazione, perché il personale medico non saprà come agire. In altre realtà europee si lavora con queste linee guida fisioterapiche, studiate anche dai nostri professionisti. Siamo fortemente impegnati affinché vengano adottate anche in Italia, consapevoli che ci vorranno anni.
Con quali realtà collaborate?
Nonostante l’associazione sia nata da poco, basiamo il nostro operato su una grande concretezza. Ad oggi, tra le più significative, collaboriamo con la Fondazione “Santa Lucia” (centro europeo per la neuro-riabilitazione) e il distaccamento di Palidoro dell’Ospedale Pediatrico “Bambin Gesù”, con il quale abbiamo avuto un accredito recentissimo per una partnership finalizzata alla costituzione di un nuovo polo di chirurgia della mano e del piede.
Samuela, cosa rappresenta per te la diversità?
Ho dovuto confrontarmi con questo termine quando è nato Giulio. Ho imparato a comprendere che mio figlio è una persona unica, che non si è mai sentito diverso dagli altri. Il mio impegno di madre è quello di farlo sentire come tutti gli altri. Da mamma vedo oggi Giulio come un bambino e il mio impegno è farlo diventare un uomo. Quando è nata l’associazione e ho iniziato a conoscere altre madri, al di là della loro provenienza geografica o di ogni differenza etnica e culturale, ho scoperto che il dolore e la paura di quelle madri erano come le mie. Qui è nata una scintilla che mi ha spinto a sostenere e affiancare altre madri.
L’accoglienza cos’è per te?
L’accoglienza per me è tutto. Incidono sicuramente le mie origini sarde, dove abbracciare le persone vicine a me è un gesto che mi viene naturale e rappresenta l’accoglienza dell’altro. Con l’associazione cerchiamo un contatto con le persone (anche se spesso ci cercano loro) in maniera delicata, per poi farle entrare nel gruppo, sempre con gradualità e volontariamente. Alcune persone sono affamate di vicinanza. Altri si sento no protetti, ma sono diffidenti. Per noi accoglienza significa dare loro un punto di riferimento e un conforto.
Quali gli obiettivi per Energy Family Project nel il 2021?
Visti i grandi impegni che portiamo avanti, alla luce delle restrizioni che stiamo vivendo, dichiarare oggi questi obiettivi ci dà fiducia per il futuro, perché consapevoli di costruire i pilastri di un lavoro buono. Per noi gli obiettivi sono chiari e limpidi:L’adozione di un protocollo nascite per le famiglie; questo per garantire l’accoglienza della famiglia, favorendo i processi di socializzazione con altre famiglie già coinvolte, fornire assistenza burocratica e indirizzare verso soluzioni terapiche idonee. Scrittura delle linee guida fisioterapiche e terapiche pediatriche. L’introduzione nel sistema di protesi low coast.
Puoi approfondire quest’ultimo aspetto?
A proposito di quest’ultimo punto volevo segnalare che siamo chapter italiana di E-nable, comunità mondiale, e forniamo device ai bambini stampati in 3D. Grazie alle competenze di molti nostri associati, abbiamo vari laboratori sul territorio nazionale. A tal proposito segnalo il sito dedicato a questa specifica attività di supporto per le protesi a basso costo.
Samuela, un auspicio per concludere…
Per concludere ribadisco la volontà affinché mio figlio non cresca disabile, perché lo Stato e il corpo sociale devono assumersi le loro responsabilità verso coloro che hanno delle fragilità.
Grazie a Samuela Fronteddu per il suo intervento e per l’operato di Energy Family Project., realtà che indica una tendenza ben precisa da seguire: quando le soluzioni sembrano lontane per volontà di pochi, esse sono a portata di mano e realizzabili grazie all’impegno di tanti, quindi occorre sempre agire.
In effetti è una ricetta che mi riporta indietro con gli anni, essendo un mio cavallo di battaglia dai tempi universitari. Tanti capelli fa… 😏
Ieri sera con questo piatto siamo ritornati universitari, cominciando a parlare di feste, alcool, musica e vecchi e cari amici. È stato ad Urbino, ad…
Orecchiette crema di noci e speck
In un sabato mattina – come domani – tipico di casa nostra, ma a volte capita anche la domenica, si sente costante la flagranza del pane fatto il giorno prima che ancora persiste nell’aria. Sana abitudine che con Sonia condividiamo da vari anni, ultimamente il momento della panificazione si porta dietro pensieri ed intenzioni, diciamo che questo momento domestico stimola la progettualità più di ampio respiro. Per questo mi è venuto di scriverne, perchè il semplice gesto di impatare della farina porta la mente lontano e stimola il dialogo, anche tra due coniugi.
Fondamentale elemento di tutte le culture, il pane è quell’alimento che tutti sono abituati ad ogni latitudine, in un certo qual modo, ad avere come costante nella propria vita, date anche le sue origini ben lontane nei secoli e la sua diffusione in varie epoche e culture.
Per le mie origini pugliesi, terra di marinai oltre che di contadini, ha inoltre un ruolo alimentare e culturale il pane per lunga conservazione, un pane “BisCotto”, diffusamente conosciuto come “Galletta del marinaio”; parlo di quell’alimento che nel nostro Sud si usa di solito chiamare “Frisella” o “frisa”. Queste, che altro non sono che un pane cotto in due fasi in modo da essiccarlo del tutto e agevolarne la perdita del lievito, aumentano questo profondo rapporto, perché oltre al classico prodotto da forno risultato della lievitazione di un impasto di acqua, farina, lievito e, per noi, sale, si aggiunge la variante privato dell’elemento della lievitazione, dell’umidità in eccesso, insomma creato per poter durare nel tempo. Questo vuol dire legare l’intera immagine del pane accompagnata a quella del suo accostamento al pomodoro, sale ed olio, fulcro della Dieta mediterranea , patrimonio immateriale dell’UNESCO dal 2010. Nella mia percezione, come in quella di molti quarantenni del sud Italia cresciuti in piccoli centri contadini, il pane vuol dire rispetto di una ritualità. Nella sua preparazione, come nella sua degustazione, sono chiamati in gioco molti sensi, provocando una sensualità se volete, che coinvolte tutto ciò legato al processo di panificazione, che va al di là del mero produrre pane. Il degustare per tanto questo prodotto va al di là, per noi, del mero nutrirsi di un dato alimento d’accompagno di altre pietanze, bensì per la sua natura di finger food comporta il toccare, stringere e manipolare un alimento fondamentale per il pasto e per la vita. Grazie anche alla sopra citata variante biscottata.
Da irriducibile italiano del meridione quale sono, parlando di pane e pomodoro – inteso in un senso più ampio, – un ruolo centrale lo ha la pizza, che se vogliamo è uno scherzoso prodotto della casualità di un panificatore, il quale dal XIX secolo ha man mano sdoganato quell’alimento e questo termine, entrambi prodotti italiano e parola italiana maggiormente diffusi al mondo, la pizza appunto.
Metteteci che come il pane, anche l’arte del pizzaiolo napoletano è patrimonio immateriale dell’umanità, quindi l’orgoglio e la consapevolezza aumentano nel relazionarmi al pane e alle sue varianti.
Questo post, intimo perché non insegna nulla di sconosciuto, oltre che a riflettere su un alimento e sulle tracce che lascia nella nostra quotidianità, ha anche la funzione di lanciare una chiacchierata con Sonia, avendo anche Lei dedicato una categoria ai prodotti da forno, oltre che da anni deliziarmi e impreziosendo la mia vita di gusto, profumi e ricchezza interiore. Il dialogo con mia moglie, ma qui nella veste di donna e blogger, si è sviluppato e svolto in due giorni, seguendo appunto il ritmo della quotidianità. Nasce ascoltando un brano del magico Pino Daniele,
prosegue in cucina durante la preparazione di un risotto curry e piselli e si conclude nel giorno della settimana che in casa nostra, più o meno costantemente, si perpetua un antico ed ancestrale rito dell’umanità nella sua dimensione domestica, la panificazione, giorno che più o meno si accompagna alla cottura della pizza (altro appuntamento comunque fisso) e alla produzione di friselle (con cadenza quindicinale d’estate), tutti alimenti immancabili nella nostra vita e che, al di là di economicità o altro, abbiamo il piacere ad autoprodurci, quando possibile.
Questa ritualità, questa bravura di Sonia nella panificazione, arte di cui poi lei stessa vi racconterà, mi ha stimolato a legare un post piccolo piccolo all’alimento principe della dieta mediterranea e perno della mia esistenza. Ma questo spazio culinario di due giorni tra fornello e forno mi ha dato anche la possibilità di confrontarmi su qualche altro tema. Infatti la la chiacchierata con Sonia, che non è solo mia moglie, e non è solo una brava con gli impasti e il forno. Infatti la reputo una donna che ha più vissuti e più visioni, che dietro argomenti profondi e semplici come la panificazione o la cucina ha anche le capacità di esprimere validi pensieri su altre grandi istanze della vita di una donna contemporanea, con le sue peculiarità. Scrivo parte di questo post con un piacevole ed intenso odore di pane in casa che si spande fluente a rinfrancare lo spirito e donare linfa ad un quieto ed irascibile vissuto di due persone come noi.
Colgo l’occasione per ringraziare Sonia di aver posticipato suoi post su pizza e pane, che presto arriveranno e costituiranno una rubrica esperienziale sul suo blog molto interessante nella categoria dedicata a pane, pizza e altri prodotti simili. Inutile dire che a suggellare la chiusura invece c’è quest’altra di Pino Daniele,
che spesso accompagna la preparazione di pizza o pane, partendo sempre la fischiettata o l’accenno del suo motivetto. Non so dire perché, ci esce naturale! Ma nel post dedicato ad una Playlist del grande Pino accennavo ad una sua canzone che mi veniva da dedicare a Sonia. Scopri qual è leggendo la nostra chiacchierata domestica.
e ti verrà facile capire perché collego questo post e quello con la sua chiacchierata.
Buona serata!
Ieri sera suggerivo la visione del film TV di genere biografico su RAI 1, intitolato “Il Figlio della luna”, sceneggiato da Paola Pascolini e Mauro Caporiccio (con la collaborazione di Lucia Frisone, madre di Fulvio), che racconta la storia vera di Fulvio Frisone, uno scienziato italiano di origini siciliane, portatore di un grave handicap. Il film, trasmesso la prima volta il 22 febbraio 2007, mi era sfuggito nelle precedenti repliche televisive e, cogliendo l’occasione di una serie di film dedicata alle donne coraggio interpretate da Lunetta Savino trasmessa in queste settimane su RAI1, ho avuto la possibilità di recuperare. Il film, per le tematiche esposte, è molto intenso e mi ha portato a riflessioni profonde. Ora, come consuetudine, una scheda e poi alcuni pensieri nella recensione, che non hanno il compito di esaurire le argomentazioni, ma di gettare un seme affinché possa riprendere certi temi con il tempo tra le pagine di questo blog.
Il figlio della luna, Italia, 2007, regia di Gianfranco Albano, prodotto da Rai Fiction e 11 marzo film, durata 100 minuti.
Lunetta Savino (Lucia Frisone), Antonio Milo (Carmelo Frisone), Alessandro Morace (Fulvio Frisone dagli 11 ai 14 anni), Paolo Briguglia (Fulvio Frisone dai 16 ai 26 anni), Sabrina Sirchia (Pinella Frisone), Evelyn Famà (Palmira Frisone), , Victoria Larchenko(Elena), Giuseppe Saggio (Michele Ferri), Paride Benassai (professor Giammona), Claudio Piano (Caruso).
prodotto da Rai Fiction, con la direzione di Gianfranco Albano, questo film televisivo è basato sulla reale storia di Fulvio Frisone, nato con una tetraplegia spastica distonica grave al punto da impedirgli persino di parlare. Grazie agli sforzi della mamma Lucia, Fulvio, apparentemente condannato ad una vita senza sbocchi, riesce a studiare con grande profitto fino a diventare un affermato scienziato nel campo della Fisica. Il film venne trasmesso in prima visione su Rai 1 giovedì 22 febbraio 2007, e secondo l’Auditel fu il programma più visto della prima serata con uno share del 27,61% e più di sette milioni di telespettatori, successo replicato giovedì 5 giugno 2008, con uno share del 19,16% e più di quattro milioni di telespettatori. La replica di venerdì 29 maggio 2020 ha visto più di tre milioni di telespettatori con uno share superiore al 13%. Come trailer potete vedere questa presentazione del film rintracciata su YouTube, risalente all’anno dell’uscita del film
Gianfranco Albano e Lunetta Savino, rispettivamente regista e attrice protagonista, sono stati al centro della recensione della scorsa settimana del film su Felicia Impastato, madre di Peppino. Quindi si può dire che questa serie sulle Donne coraggio trasmessa da RAI 1 mette in evidenza la bravura della regia nel genere dei Film TV e la straordinaria capacità dell’attrice nell’immedesimazione del personaggio che, essendo contemporaneo, ha una sua particolare valenza. Bene, tecnicamente del film non voglio dire altro; è un bel prodotto, fatto veramente bene, con un ritmo avvincente e, seppur non conoscendo a fondo la differenza tra realtà e trasposizione, posso dire che segue molto bene gli eventi. Ma su tre aspetti vorrei concentrarmi, per affermare che ho apprezzato il film, conosciuto e ammirato la storia e compreso il messaggio. Per chi mi legge è necessario specificare subito un particolare: parlo da disabile (della vista certo, non con un handicap estremamente grave come quello del protagonista), cresciuto nel sud Italia, quindi sono coinvolto più o meno direttamente da alcune dinamiche risaltate da questo film. Ma veniamo a noi. Il primo aspetto che vorrei evidenziare è quello del coraggio della signora Lucia. Abbattere il pregiudizio, soprattutto il proprio provocato dal difficile percorso dell’accettazione di un figlio diverso, non è facile mai, ma in una regione del nostro meridione e in un’epoca dove i diritti civili e sociali ancora non si erano affermati non deve essere stato facile. Perciò, quando vedete evidenziati nel film alcuni comportamenti da parte di altre madri o del tessuto sociale circostante, sentite pronunciare certe frasi di commiserazione verso questa madre, non crediate che sia fantasia pura, anzi, ritengo che ci sia moltissima verità perché tutte le madri che hanno vissuto quest’esperienza esistenziale, reagendo ad essa, hanno dovuto affrontare allo stesso modo l’ignavia e la facilità di pensiero che condanna, piuttosto che apprezzare (“Questo figlio lo espone come fosse un oggetto”, si sente ad un certo punto). Il secondo aspetto è quello dell’impreparazione delle istituzioni, ancora oggi mi verrebbe da dire. All’epoca c’erano pochi strumenti normativi, quindi per Fulvio Frisone studiare è stata veramente una delle sfide principali, perché le sue difficoltà (assieme a quelle dell’intero nucleo familiare) partivano proprio dalla prima agenzia che dovrebbe aiutare a diventare degni cittadini, ovvero la scuola; tenete conto che negli anni Settanta l’articolo 3 della Costituzione già esisteva, ma non vi stupisca la poca buona volontà dei vari presidi o segretari, sintomo che – ripeto ancora oggi esistente come “atmosfera di accompagnamento” – la società italiana non abbia del tutto assimilato i concetti di inclusione, integrazione e pari opportunità. Il terzo aspetto è quello riferito allo stesso protagonista, Fulvio Frisone, che cerca di affermare se stesso anche attraverso il rifiuto dell’Amore materno, in alcuni tratti oppressivo. Il conflitto tra il figlio disabile e la propria madre è una questione sempre presente in questo genere di storie, proprio perché spesso è nella famiglia che si crea il primo ostacolo per una piena consapevolezza del proprio io, del sé come portatore di dignità prima ancora che dell’handicap. In questo vissuto la ricomposizione tra madre e figlio disabile è la strada naturale per l’evoluzione di vicende umane contemporanee, dove il protagonista ancora vivente è del tutto attivo sul proscenio dell’esistenza, assorbendo e rimandando istanze intime e sociali di varia natura. Ma non è enfatizzata oltremodo se si considera il significato che si porta dentro il rapporto estremo che si crea tra una madre e il proprio figlio con handicap, indubbiamente più forte di analoghi rapporti filiali in condizione di “normalit”à. Questo legame è pericoloso, appunto, perché non sempre si riescono a sciogliere quei nodi che rendono poi il disabile di fatto consapevole e libero di autodeterminarsi; non sempre questo, ad essere sinceri, è possibile. Ma frequentemente per troppo amore si può anche nuocere, anche se involontariamente. Questo tratto è molto ben evidenziato, anche se invisibile agli occhi dei più, affascinati ovviamente dalla forza indiscutibile della madre, ma in genere di tutti i protagonisti. Nota di merito per l’intero cast, che ha saputo tenere testa ai difficili ruoli, dal padre alle sorelle, senza mai scadere – nella sceneggiatura come nell’interpretazione – in un patetico teatrino del pietismo. Merito agli attori che interpretano Fulvio Frisone, perché ci vuole molta bravura già ad immedesimarsi in un altro (ma è il loro mestiere), ma carpire certe peculiarità non è da tutti. Complimenti a Fulvio Frisone, che rappresenta un esempio di positiva reazione alle vicende della vita, non rappresentando la condizione scontata che gli altri vedono in te. Bensì facendosi scivolare addosso – con consapevolezza – la propria disabilità, dimostra di potersi affermare con dignità, se supportato e posto nelle condizioni. Non mancherò di riprendere la sua figura in un futuro contributo, anche perché a leggere la cronaca si è fatto sentire abbastanza e per tante tematiche, tra le quali quella acennata nel film e di primaria importanza, ovvero il diritto all’assistenza sessuale per i disabili gravi.
Potete rivedere questo film in streaming dal sito oppure dall’App di RaiPlay.
Era di maggio, il ventunesimo giorno del mese, era il 2012, capitava di lunedì, dopo 4 anni e mezzo di convivenza ci apprestavamo a firmare il …
Teng o cor int o zucchero😍🥂🎂❤️
Ma come dimenticare il brano che fu la chiusura della colonna sonora del video di quel giorno? Tanti auguri annoi!
Esistono molti aspetti considerabili per descrivere lo stato di profonda crisi che ha creato l’emergenza del Coronavirus, ad ogni livello: dalle difficoltà del mondo della comunicazione al ruolo diminuito del Parlamento, dalla magra figura dei detentori del potere politico nella gestione della crisi alle gravi conseguenze per l’economia. Mi preme ora soffermarmi su un’osservazione di queste settimane di lockdown per una delle sue conseguenze più nefaste.
Nella progressiva diminuzione della garanzia dei diritti costituzionali, si sono palesati con forza molti divari; tra questi, più evidente di altri, ne esiste uno tra cittadini che hanno un potere di contrattazione con la politica e coloro che invece, per varie cause, ne sono succubi. Sostanzialmente si tratta di un’amplificazione di storture presenti prima della crisi Covid, ma che ora si configura come una carenza nel diritto di cittadinanza per alcune categorie, evidentemente non considerate nella loro pienezza di cittadini: bambini, disabili ed anziani stanno subendo le conseguenze peggiori e pagheranno il conto più salato, dal punto di vista sociale alla fine di essa; e, già da oggi, registrano una forte diminuzione dei diritti di cittadinanza. Oltretutto la politica e le istituzioni stanno mal rispondendo alle loro difficoltà e toccherà da ora in avanti riconsiderare i modelli dei servizi dedicati per l’inclusione nella comunità come cittadini pienamente titolari di diritti e di dignità. Ma andiamo per ordine e cerchiamo di analizzare al meglio gli aspetti emersi nella lettura di numerosi contributi, tutti segnalati nella sitografia in fondo a quest’articolo.
Tra i vari livelli di diseguaglianza creata dal COVID risulta evidente quella tra chi possiede delle garanzie economiche e chi non ha la possibilità di affrontare il costo che questa crisi comporta; tale iniquità, considerando gli strumenti necessari per affrontare la quarantena generalizzata e continuare ad avere un orizzonte esistenziale soddisfacente, si riscontra nel e digital divide, come diminuzione di cittadinanza appunto. Questo è importante soprattutto per chi ha dei figli, alle prese con la DAD (Didattica a distanza, NDA), che non sempre riesce a garantire adeguatamente le esigenze educative con i nuovi strumenti digitali, a causa anche della diminuita capacità del reddito per via della crisi. Ciò emerge chiaramente da un articolo di Vincenzo Galasso dalle pagine de’ “Il Sole 24 ore”, dove l’autore rimarca come “Il Covid-19 rischia di aumentare la disuguaglianza di reddito ampliata dalla crisi economica e di accentuare la povertà educativa dei più fragili”, auspicando una ripartenza proprio dalla scuola per ricostruire un Paese meno diviso anche dal punto di vista tecnologico.
Le difficoltà sopra descritte sono presenti nella cronaca di queste settimane, registrando la cattiva gestione (da parte di tutti, per inciso) della DAD, emersa persino durante il concertone del I° maggio scorso, anch’esso in formato “distanziato”. Queste difficoltà non sono vissute solo dalla scuola, ma anche lo sviluppo e la crescita delle bambine e dei bambini ne risentono, ponendo criticità anche nel rapporto tra genitori e figli. A tal proposito, Francesca Mannocchi dalle pagine web de’ “L’espresso”, rimanda una serie di testimonianze di madri che vedono regredire i propri figli per un malfunzionamento dell’apparato educativo nell’impostare adeguati percorsi formativi; chi ha figli inseriti in contesti scolastici tecnologicamente avanzati o, in generale, i ragazzi delle secondarie riescono in un certo qual modo a porre una pezza a tali difficoltà. Ma per la maggior parte invece risulta un’esperienza negativa, soprattutto con famiglie che hanno bambini delle primarie; in ogni caso, lì dove il divario digitale è maggiore, anche e soprattutto per cause economiche, la scuola pare essere assente o incapace nel fornire risposte alle esigenze di bambine e bambini che, è bene ricordarlo, sono cittadini con loro specifici diritti, tra i quali quello all’educazione. Pare quasi che l’agenzia educativa, dove si formano i cittadini del domani, stia abdicando al proprio ruolo, registrando molto spesso una latitanza ingiustificabile che destabilizza del tutto giovani vite non sufficientemente supportate nell’affrontare queste nuove sfide. Questo disagio è amplificato nel caso di nuclei familiari che hanno ragazze e ragazzi con disabilità gravissime e che stanno osservando una vera e propria regressione dei loro figli, un ritorno da posizioni che in alcuni casi hanno messo anni a raggiungere. In quest’ultimo caso, a premessa per ciò che segue, si registra la mancanza di indicazioni sulle attività socio-educative specifiche, impossibili da gestire con il distanziamento sociale.
Parlando di disabilità sono tante le omissioni emerse in questa crisi caratterizzata dal lockdown, ma inevase sono anche tante istanze per la fase 2 e la ripartenza e viene da chiedersi se ad un “prima” costellato da difficoltà possa seguire un “dopo” che restituisca maggiore dignità di cittadini a milioni di donne ed uomini, milioni di famiglie. Tra le varie voci che lamentano tale mancanza in tutta Italia, ad esempio, Luca Nicolino – presidente dell’associazione “I buffoni di corte”, organizzazione attiva sul territorio del torinese e che opera con disabilità intellettive e cognitive – osserva: “realtà come la nostra che, non avendo indicazioni dal Governo, non sanno come programmare un piano di intervento adeguato, a breve-medio termine”; in maniera molto simbolica, questa associazione, assieme ad altre, ha lanciato una campagna di protesta dall’emblematico titolo “Cosa farò domani ?”.
La FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, NDA) è giunta all’elaborazione di un documento che propone tutte le misure necessarie per costruire una nuova visione di società, che restituisca, come dichiara il presidente Vincenzo Falabella, “cittadinanza piena e integrale alle persone con disabilità e alle loro famiglie”; Falabella ricorda inoltre “Il richiamo forte, chiaro e ineludibile all’eguaglianza e alle pari opportunità delle persone con disabilità con il resto della popolazione impone di avere una nuova visione che riduca tutte le forme di diseguaglianza aggiuntive e, tra queste, quelle di genere e di età.”. Salute, riabilitazione e abilitazione, Lavoro, Politiche e servizi per la vita indipendente, Inclusione socio-scolastica e processi formativi. Tanti gli aspetti, le sfide alle quali il governo e le istituzioni di ogni livello dovranno rispondere, ora più che mai, per superare questa crisi con la restituzione, dovuta, della dignità a cittadini della Repubblica. A tal proposito, dalle pagine di Superando, Carla Volpe (madre di una bambina con sindrome di Down, NDA), scrive che ora l’obiettivo dev’essere quello di rinascere dalle “macerie” del Covid-19, tutti, anche i soggetti più deboli, che devono avere il loro posto nella vita della comunità e concorrere al benessere dell’umanità”. Auspicio che condivido pienamente.
Il profondo senso di solitudine che vivono le persone disabili e le loro famiglie è condiviso da una categoria che ha ad oggi pagato il prezzo più caro al Coronavirus, ovvero gli anziani. Dalle pagine de’ “Il Riformista” si legge una storia emblematica di solitudine esistenziale di una donna fiorentina che si porta addosso un doppio dramma: il suo personale, di un’anziana non considerata nel contesto dove vive; quello del marito, ospite di una RSA e con sindrome di Alzaimer. Questa vicenda rimarca l’assoluta inadeguatezza alla cura e alla tutela di cittadini che hanno speso un’intera vita come tali, lavorando, contribuendo e costruendo questa nazione, ma che una volta soli (e la solitudine può avere varie origini) non hanno avuto gli strumenti per affrontare una crisi sanitaria durissima come questa. Come osserva Alberto Cisterna dalle pagine de’ “Il Riformista”, “forse dobbiamo chiederci se a pagare il prezzo di tutto ciò siano stati quelli con le pensioni minime, quelli che non potevano permettersi le case di riposo di lusso, quelli che i familiari hanno derelitto perché le pensioni non erano appetibili, quelli soli e senza un aiuto”. Ciò denota anche un profondo scollamento generazionale con gli anziani, problema non di poco conto, considerando che si tratta di coloro che nel bene e nel male hanno costruito l’Italia che viviamo oggi. Sempre Cisterna conclude che “toccherà all’intero Paese ricostruire, senza inganni e senza retorica, una relazione sincera e profonda con la generazione mietuta dal male nascosto”.
Se gli anziani, con evidenza, sono quei cittadini privati della loro cittadinanza perché non protetti e tutelati alle origini della pandemia, occorre anche indagare i luoghi che hanno visto questa moria della nostra memoria storica, le Residenze Sanitarie Assistenziali, un modello di welfare che in Italia ha mostrato tutta la sua debolezza, come raccontato da Simona Ravizza sulle pagine del “Corriere della Sera”. Le case di riposo, già fortemente in crisi prima dell’epidemia a causa di un sistema di welfare basato sul modello di ospitalità sanitaria (ovvero con utenti che entrano nel sistema di RSA già in una fase avanzata della terza età), sono sostanzialmente rimaste sole nella gestione degli anziani contagiati e nella prevenzione; ciò si è verificato anche per la distribuzione di dispositivi di protezione individuale. I singoli gestori hanno dovuto attrezzarsi in autonomia, cercando fornitori di Dpi su mercati esteri, andando incontro a enormi difficoltà, con ritardi nella distribuzione e inefficienze. Considerando le relazioni delle RSA con il tessuto territoriale, i rapporti con la rete ospedaliera e i servizi sanitari di prossimità sono stati bloccati per proteggere gli ospedali da un eccesso di ricoveri. Inoltre, le relazioni con i medici di famiglia sono state sporadiche. Ma la mancanza che ritengo più grave è che, sin dagli inizi dell’emergenza, l’attività di screening tramite i tamponi non è stata prevista in modo sistematico ed omogeneo per le Rsa sull’intero territorio nazionale, né sui casi sospetti tra gli ospiti né tra gli operatori». Capite benissimo che si tratta di una disfatta totale del sistema delle residenze per anziani e dell’intero sistema sanitario.
Auspico che quanto prima, a seguito della crisi che viviamo senza precedenti, queste tre fasce di popolazione possano rivedere assegnata loro la dignità di cittadini con pienezza di diritti; a tal proposito chiediamoci tutti, sin da oggi – e chiediamolo alla politica -, se non sia il caso di rivedere i modelli dei servizi loro dedicati, volti al recupero del senso di comunità, organo complesso dove tutti i soggetti sono integrati e chiamati alla creazione del benessere collettivo, in cui tutti i soggetti sono portatori di legittimi interessi ed aspettative.
NB: Per approfondire i temi sopra esposti, leggi nell’ordine:
* Per i divari economici e il digital divide:
https://www.ilsole24ore.com/art/la-via-dell-equita-passa-scuola-e-digitalizzazione-ADFLFRN
* Per le difficoltà della scuola e dell’infanzia:
https://espresso.repubblica.it/attualita/2020/04/28/news/lettere-mamme-bambini-lockdown-1.347669
* Per il mondo delle disabilità:
Cosa farò domani? La domanda di tante persone con disabilità
Cittadinanza piena e integrale alle persone con disabilità e alle loro famiglie
* Per gli anziani e le RSA:
Anziani morti in abbandono, ricostruire relazione con la generazione mietuta dal male nascosto
Quando ti scegli un mestiere, come il giornalista, e cerchi di onorarlo con la deontologia e il coraggio dell’onestà, già hai vinto. Se sei donna e ti occupi di cronaca nella periferia romana, ti può capitare che quel coraggio e quella perizia nell’esercitare il mestiere devono esser veramente infiniti, perché da sola, l’onestà, non basta. Soprattutto se ti imbatti, con le tue inchieste, nelle più pericolose famiglie criminali del territorio, abituate a trattare le donne con inferiorità, a percepire i giornalisti come una minaccia. Federica Angeli ha dimostrato molto coraggio nell’affrontare tutto ciò all’interno di una delle periferie più difficili d’Italia, quella del litorale romano.
Il libro: Federica Angeli, A mano disarmata, 2018, Baldini&Castoldi, P. 384.
Trama: due spari nella notte, le finestre che si aprono e subito dopo un grido: «Tutti dentro, lo spettacolo è finito!» Siamo a Ostia, nel 2013, e tra gli abitanti di quei palazzi c’è anche Federica Angeli, cronista di nera per le pagine romane di «la Repubblica», che in quella periferia è nata e cresciuta. Da tempo si occupa dei clan locali e ha subito gravi minacce. Sa quindi come è fatta la paura, ma crede che l’altra faccia della paura sia il coraggio. Se i vicini rientrano obbedienti al comando del boss, lei decide di denunciare ciò che ha visto. Nessuna intimidazione fa vacillare la sua fede in un noi con cui condividere la lotta per la legalità. Federica Angeli ha ottenuto alcune vittorie giudiziarie, seppur faticose, con l’unica arma che possiede, la penna. In questa sua testimonianza racconta le tappe di una vera e propria sfida alla malavita, nel solco di un giornalismo nobile, illuminato di etica civile, che non compiace altro che la verità. L’autrice, nello svolgere con coerenza e puntualità il suo lavoro di cronista, non dimentica la sua dimensione di donna, di madre e di moglie contesa alla serenità famigliare che riesce magicamente a preservare, coinvolgendo i figli in un gioco alla guerra.
Federica Angeli (Roma 1975), cronista di nera e giudiziaria, scrive per «la Repubblica» dal 1998, dove è redattrice dal 2005. Dal 2013 vive sotto scorta dopo le minacce […]
Attenzione: informazioni tratte dal sito web della casa editrice del libro.
Recensione: il giornalismo d’inchiesta, in Italia, ci ha restituito grandi firme da sempre. Quando i bravi giornalisti sfidano il potere occulto delle mafie, non piegandosi mai ai ricatti, ancor più facili verso una donna, meritano l’attenzione di tutti, prima ancora che per il loro impegno professionale, per l’elevata etica nello svolgimento della loro funzione e per il senso civico reso alla società. Per questo La Angeli è stata insignita nel 2015 dal Presidente Mattarella dell’onorificenza di Ufficiale dell’ordine al merito della Repubblica Italiana. Per il suo lavoro di giornalista, encomiabile già da prima della pubblicazione di questo libro e dell’inchiesta nata nel 2013, ha ricevuto inoltre una dozzina di premi e riconoscimenti, tra i quali ricordo a titolo esemplificativo il Premio Donna dell’anno 2014 (consegnato dal municipio X di Roma) per un’inchiesta sulle attività illegali a Ostia, la Medaglia al Premio Bontà (consegnata dal presidente della repubblica Giorgio Napolitano nel dicembre 2014), il Premio Mario Francese per l’impegno contro la criminalità organizzata e il Premio di Articolo 21 come simbolo del giornalismo d’inchiesta italiano nel 2015, il Premio Falcone e Borsellino nel 2016
e il Premio indetto alla memoria di Daphne Caruana Galizia, per aver fatto sentire la voce della verità e della trasparenza nel 2017.
Durante la lettura del suo libro ho provato una profonda commozione per la naturalezza di questa Donna nell’affrontare l’ovvia battaglia , professionale ed umana, per la civiltà, ponendosi indiscutibilmente dalla parte del giusto, della Legalità, della collettività; anzi, stimolando questo sentimento di comunità (il “Noi” spesso richiamato tra le sue pagine), perduto ad Ostia decisamente sminuito, con una realtà sociale caratterizzata da una diffusa omertà sulle malefatte della famiglia Spada e di altri sodalizi criminali. Un libro che consiglio per chi vuole apprezzare il senso della parola coraggio e trovare linfa vitale per sostenere moralmente le proprie piccole e grandi battaglie. Si tratta di un testo che, assieme a pochi altri, andrebbe introdotto nelle scuole in un ipotetico e recuperato spazio dedicato all’educazione civica, per completare la formazione di buone cittadine e buoni cittadini, dediti all’onestà, al coraggio delle proprie idee, al senso di comunità e alla legalità, al di là di ogni difficoltà che questo percorso possa portare.
Per apprezzare la naturalezza e la spontaneità di Federica Angeli nel raccontare le traversie subite a seguito della sua coraggiosa denuncia, che ha portato alla pubblicazione di questa cronaca di giornalista sotto scorta, potete ascoltare (dal canale Youtube della stessa casa editrice) questo intervento durante una presentazione del libro.
In un certo qual modo, questa canzone di Caparezza ha accompagnato la lettura di questo libro.
https://oppostevisioni.wordpress.com/?p=407
NB: il libro di Federica Angeli, comprato in versione cartacea per sostenere concretamente il lavoro di una delle migliori giornaliste italiane di sempre, ho potuto ascoltarlo grazie al tempestivo – quasi coevo – lavoro di realizzazione della versione audiolibro a cura del Centro Nazionale del Libro Parlato “Francesco Fratta”, che offre questo servizio esclusivamente ai non vedenti. Ne esiste una versione commerciale, letta da Giusy Frallonardo, che potete trovare sulla piattaforma audible.it.